Quando aspettate mesi per una visita, non è solo inefficienza. È mancanza di investimenti, di personale, di programmazione. Ma anche eccesso di prestazioni inutili che sottraggono spazio a quelle necessarie. Quando siete costretti a pagare di tasca vostra, vi dicono che è inevitabile. Non lo è. È una scelta politica
Cari cittadini,
vi scrivo perché conosco tutti i disagi che vivete ogni giorno. Li conosco perché vedo, ascolto e subisco con voi. Vi vedo nelle interminabili ore trascorse nei gironi infernali dei pronto soccorso; nelle lunghe telefonate al Cup per prenotare una visita o un esame; nella ricerca affannosa di un medico di famiglia che non c’è.
Vi sento quando vi dicono «non c’è posto» con quell’amaro suggerimento: «Se vuole può farlo a pagamento». Avverto sulla mia pelle la vostra rabbia, frustrazione, sfiducia. Avete ragione, ma vi scrivo perché dovete sapere perché accade tutto questo.
Io sono nato per curare tutti voi, senza mai chiedere quanto guadagnate, dove vivete o che lavoro fate. Per decenni vi ho “servito” al meglio delle mie possibilità perché la scelta era chiara: investire sulla salute come diritto fondamentale.
Oggi invece mi trascino sempre più a fatica, logorato da scelte politiche che da oltre 15 anni mi hanno sempre più indebolito. Stritolato tra l’aumento dei vostri bisogni di salute e le risorse insufficienti. Arrugginito per l’assenza di coraggiose riforme strutturali. Amareggiato e impotente di fronte ad un diritto che si trasforma in un privilegio.
Disagi e scelte politiche
I vostri disagi non sono fatalità, né problemi isolati. Non sono colpa della dottoressa che corre affannata, dell’infermiere stremato o dell’operatore che non ha risposte. Sono il frutto di scelte politiche reiterate nel tempo: con meno risorse e meno personale devo curare più persone con più bisogni. Siete sempre più anziani, convivete con tante malattie croniche e per curarle arrivano farmaci e tecnologie sempre più costosi. Mi chiedono di fare sempre di più con meno, perché oltre la retorica degli «investimenti record» la verità è una sola: mi spetta una quota sempre più piccola della ricchezza prodotta dal paese.
Molti dei professionisti che vi hanno curato per anni stanno andando via. Non perché non gliene importi nulla di voi, ma perché non ce la fanno più. Turni massacranti, stipendi bassi, maggiori responsabilità, burocrazia soffocante, aggressioni verbali e fisiche. E chi resta con me è costretto a lavorare oltre ogni limite, e vi chiede scusa per quello che non riesce più a garantire.
Un servizio non uguale per tutti
Vado fiero del mio essere “nazionale”, ma oggi la tutela della salute dipende dal vostro cap di residenza. Che vi permette di accedere a servizi efficienti o a cure insufficienti, costringendovi a diventare “migranti della salute”. 21 sistemi sanitari hanno trasformato un diritto uguale per tutti in un servizio a geometria variabile e l’uguaglianza è rimasta solo sulla Carta.
E mentre si anela a maggiori autonomie, nessuno mette al sicuro ciò che conta per voi: cure essenziali garantite ovunque, con regole uguali per tutti, proteggendo anzitutto i più fragili e gli indigenti.
Quando aspettate mesi per una visita, non è solo inefficienza. È mancanza di investimenti, di personale, di programmazione. Ma anche eccesso di prestazioni inutili che sottraggono spazio a quelle necessarie. Quando siete costretti a pagare di tasca vostra, vi dicono che è inevitabile. Non lo è. È una scelta politica: indebolire me per lasciare sempre più spazio al privato, che si nutre delle mie difficoltà e della vostra paura di aspettare. Io resto, ma vengo svuotato. E così il diritto diventa privilegio, perché il mercato non protegge i più fragili: li lascia indietro.
La colpa non è di chi cura
Cari cittadini, non sono perfetto e non posso garantire tutto a tutti, sempre e ovunque. Ma posso continuare a tutelare la vostra salute solo se non mi date più per scontato. Se smettete di prendervela con chi vi cura e iniziate a chiedere conto a chi decide. Se pretendete scelte politiche basate su dati ed evidenze scientifiche e non su slogan e propaganda. Se smettete di pretendere farmaci ed esami che non servono a nulla e rischiano di farvi male. Se comprendete che appropriatezza e lotta agli sprechi significano più cure per chi ne ha davvero bisogno. Se capite che difendere la sanità pubblica non è una battaglia ideologica, ma una questione di sopravvivenza civile e di tenuta della coesione sociale.
Difendere me significa difendere voi stessi. Perché il giorno in cui non ci sarò più, il giorno in cui la carta di credito conterà più della tessera sanitaria, scoprirete che non avete perso un servizio, ma un diritto. E quel giorno, per curarsi, non basterà più aspettare. Bisognerà pagare.
Io sono ancora qui, resisto per voi, ma non sono immortale. Difendetemi, perché siamo ancora in tempo.
Il vostro Servizio sanitario nazionale
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