Prima di togliersi la vita nel cosiddetto «ospedaletto» del Cpr di Torino, il 23enne Moussa Balde è stato vittima di decisioni sbagliate fin dal suo arrivo nella struttura. Lo sostengono alcune carte finora inedite del processo in corso che documentano le negligenze sanitarie avvenute nel centro di permanenza e rimpatrio vicino a corso Brunelleschi. Struttura chiusa, ora è tra i centri scelti dal governo Meloni per essere riattivati dopo una ristrutturazione.

Il 10 maggio 2021, quando viene portato al Cpr, Balde è ferito e agitato, ma nella sua cartella clinica non ci sono cenni sul pestaggio subito il giorno prima a Ventimiglia, né sulla visita specialistica che gli era stata prescritta al pronto soccorso. Secondo la valutazione tecnica fornita ai pubblici ministeri, Balde presentava evidenti segnali di instabilità psichica, eppure il responsabile sanitario del centro che lo visita si limita a segnalare la presenza di lesioni sul corpo, senza richiedere ulteriori accertamenti come previsto dalle procedure nazionali e internazionali. In quelle condizioni, per lui si sarebbe invece dovuto predisporre subito una visita psichiatrica, dicono le carte.

Il giovane guineano proveniva da una situazione di forte disagio: arrivato in Italia nel 2017 con uno sbarco a Lampedusa, era passato attraverso vari Cpr ed era riuscito a stabilirsi a Imperia, dove nel 2018 aveva conseguito la terza media. All’ennesimo respingimento della sua richiesta di protezione internazionale però, aveva iniziato ad abusare di alcol, provato psicologicamente dalle difficoltà incontrate. Il giorno dopo essere stato aggredito davanti a un supermercato, Balde viene trasferito a Torino dopo anni di permanenza in Liguria, inserito nuovamente in un Cpr e rinchiuso in isolamento.

Il secondo pestaggio

Nelle 48 ore che trascorrono fra il suo arrivo in Corso Brunelleschi e il suo inserimento nell’ospedaletto (un’area isolata dal corpo centrale del Cpr), Balde viene picchiato una seconda volta. A dirlo è un mediatore culturale che riferisce di un’aggressione avvenuta per motivi razziali in una delle aree comuni del Cpr da parte di altri reclusi, ma anche di questo non c’è traccia in nessun documento reperibile, nemmeno nelle cartelle cliniche del centro.

Secondo le testimonianze, la garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino aveva tentato di accertare la presenza di Balde nel Cpr cinque giorni dopo il suo arrivo, quando le era stato segnalato il pestaggio a Ventimiglia di un migrante arrivato in città. La direttrice del centro però aveva detto di non saperne nulla e aveva confermato la sua presenza alla garante solo il 21 maggio, due giorni prima del suicidio. Nonostante questo, Balde viene lasciato ancora una volta a sé stesso in isolamento, senza che venga fatta alcuna valutazione sulla sua condizione di vulnerabilità e del rischio suicidario.

Mentre nessuno si accorge di lui, Balde trascorre 10 giorni nell’ospedaletto. Ci finisce due giorni dopo essere entrato nel Cpr, per una semplice psoriasi. Nonostante l’assenza di rischi di contagio, questo è il motivo che nella cartella clinica viene indicato come sufficiente a rinchiuderlo in una cella. Come hanno ribadito anche i pm, la psoriasi non giustifica tuttavia in alcun modo il suo isolamento nell’ospedaletto, che anzi potrebbe aver peggiorato la sua instabilità psichica. Proprio questa infiammazione della pelle può essere attribuita a stress post traumatico e sarebbe dovuta essere un ulteriore campanello di allarme per il medico curante, si legge nella consulenza tecnica.

Isolamento mortale

Contro la psoriasi, a Balde viene prescritto un farmaco con effetti collaterali molto comuni, ma senza che avvenga un regolare monitoraggio della terapia. Dalle dichiarazioni raccolte durante le indagini, emerge infatti che le due infermiere dell’ospedaletto non avevano l’obbligo di monitorare l’assunzione dei farmaci da parte delle persone trattenute nel Cpr, eccetto gli ansiolitici. La loro attività di controllo sembrava insomma soltanto finalizzata a verificare che i sedativi facessero effetto. Sulla base di questa prassi, la terapia somministrata a Balde poco dopo il suo arrivo non viene verificata. Secondo la consulenza tecnica però, ciò è paradossale, dal momento che Balde era stato messo in isolamento per essere curato.

Ad accrescere lo stato di abbandono del giovane migrante c’erano poi i limiti strutturali della cella. Tra le mura dell’ospedaletto dove Mossa Balde si è impiccato con un lenzuolo il 23 maggio, non si poteva comunicare in alcun modo con gli operatori sanitari. I sopralluoghi delle indagini hanno permesso di accertare che chi veniva inserito in isolamento non aveva accesso a citofoni, campanelli o a sistemi di videosorveglianza. Ma le linee operative indicate dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti stabilisce che le celle utilizzate per l’isolamento dei detenuti devono essere munite di dispositivi che permettano una pronta comunicazione con il personale penitenziario. Anche questi, però, nel Cpr di Torino erano assenti.

Dopo la morte di Balde, altre tre persone trattenute nel centro avrebbero tentato a loro volta il suicidio. Alcuni documenti dell’inchiesta parlano di reclusi affetti da gravi disturbi psichici che nello stesso periodo hanno rischiato la morte per sciopero della fame e per aver ingerito corpi estranei contundenti. Anche in questo caso, il medico del Cpr non avrebbe messo in atto nessun tipo di prevenzione.

Tra coloro che hanno tentato il suicidio c’è il vicino di cella di Moussa Balde. Prima di entrare nel Cpr seguiva una terapia psichiatrica per gestire la propria aggressività e, dopo quello che è successo nell’ospedaletto, ha chiesto l’intervento di uno psicologo per riprendere il percorso di cura.

Per lui e per gli altri due migranti, circa una settimana dopo la morte del ragazzo guineano, sono state richieste alcune visite psichiatriche. Lo stesso Balde avrebbe dovuto riceverne una proprio il giorno successivo, ha detto la garante ai pm, aggiungendo di aver appreso la circostanza solo dopo il suicidio.

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