Al Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo, in Friuli Venezia Giulia, sabato sera i trattenuti hanno iniziato una protesta contro le condizioni di vita, per il mancato funzionamento dei riscaldamenti, l’assenza di acqua calda e l’insufficienza di coperte. «Nella struttura fa molto freddo, ci sono finestre rotte e il riscaldamento non funziona», spiega Yasmine Accardo referente della campagna LasciateCIEntrare, che da anni si batte contro il sistema dei Cpr e le condizioni disumane all’interno dei centri. 

I Cpr sono luoghi di detenzione amministrativa, dove i cittadini stranieri senza un permesso di soggiorno vengono privati della loro libertà in attesa dell’espulsione, che avviene nel 50 per cento dei casi. Formalmente non sono carceri, ma le condizioni di detenzione, come hanno rivelato molte inchieste e rapporti, sono spesso peggiori degli istituti di pena.

Accardo spiega che erano appena arrivati cittadini tunisini molto giovani, che hanno da poco compiuto 18 anni ed erano «estremamente spaventati», anche per i nuovi termini di trattenimento, estesi a 18 mesi. «Le persone, dopo aver subìto il freddo di questi luoghi e aver insistito perché cambiassero le condizioni, sono arrivate a queste proteste. Hanno chiesto i diritti minimi di sopravvivenza e non hanno ricevuto nessuna risposta, se non che i riscaldamenti non funzionano», prosegue Accardo. 

Il Cpr friulano è uno dei pochi in cui è permesso usare il cellulare. Alcuni video raccolti da LasciateCIEntrare mostrano gli incendi appiccati all’interno della struttura e la presenza di squadre antisommossa. Non è la prima volta che i trattenuti contestano le condizioni di vita all’interno del centro, dove dalla riapertura, nel dicembre 2019, sono morte quattro persone. 

Secondo il decreto 124 del 2023, poi convertito in legge, dopo la prima convalida al trattenimento, l’esame della situazione del trattenuto avviene dopo tre mesi, quando viene valutata la proroga, che può estendersi a un totale di 18 mesi. La referente di LasciateCIEntrare ritiene che la convalida dopo tre mesi sia «una sottrazione della libertà individuale», perché «non è possibile portare le proprie istanze prima dei tre mesi. Lo spettro dei 18 mesi spaventa tutti». 

L’esposto

Un anno fa le allora parlamentari Paola Nugnes, ex Movimento 5 stelle e Doriana Sarli del M5s, dopo una visita nel centro friulano nell’estate 2022, con alcuni avvocati e avvocate avevano presentato alla procura di Napoli un esposto «in cui la compiuta esposizione dei fatti osservati e l’individuazione di diverse ipotesi di reato su cui sarà compito della procura indagare, si pone come un atto di doveroso senso civico, istituzionale e di giustizia», raccontava in un articolo su Domani Gaetano De Monte. «Vediamo se ci saranno sviluppi di questo esposto, perché le condizioni del centro non sono migliorate», dice Accardo.

Diritti fondamentali violati

Come negli altri centri per il rimpatrio, potenziati da molti governi – recentemente dal governo Meloni che ha l’obiettivo di costruirne 9 e ristrutturarne due – i diritti delle persone trattenute vengono costantemente violati. Già nel 2020 il Garante delle persone private della libertà personale aveva rilevato problemi al sistema di riscaldamento. «Le persone trattenute hanno espresso un forte disagio per le condizioni climatiche dei locali e il Garante nazionale ha appreso che la Garante comunale ha fornito degli abiti pesanti per attenuare l’impatto di una simile condizione», si legge nel rapporto del Garante.

Si aggiunge, tra le altre cose, l’assenza di attività ricreative, l’impossibilità per i trattenuti di accendere e spegnere la luce, che è centralizzata e gestita dagli operatori, il non utilizzo di una sala mensa, il fatto che non vi sia «la prassi di avvisare i familiari in caso di invii in ospedale» e la lesione della dignità umana per chi si trovava in isolamento fiduciario nel periodo del Covid e riceveva «il cibo attraverso gli spazi delle sbarre della cancellata di ingresso del settore», che rimaneva chiusa.

Il centro di Gradisca dal 2019 è gestito dalla cooperativa Ekene, la stessa che si è aggiudicata l’appalto del Cpr di Macomer, in Sardegna, e che dal 2011 circa ha gestito centri di accoglienza in Veneto, con altre denominazioni. Nonostante i diversi processi in corso a carico dei vertici della cooperativa e l’accusa di omicidio colposo al direttore della struttura per la morte di un cittadino georgiano nel gennaio 2020, la cooperativa continua a gestire la struttura.

Legittima difesa

L’unica sentenza che tratta un caso di rivolta nei Cpr, allora Cie, risale al 2012. Il tribunale di Crotone aveva assolto i trattenuti, imputati per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale nel Centro di identificazione e espulsione di Isola Capo Rizzuto, per legittima difesa.

Per il tribunale le condizioni di vita all’interno della struttura erano lesive della dignità umana, e configuravano una violazione in linea con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce la tortura e trattamenti inumani e degradanti. Strutture, si legge nella sentenza, «al limite della decenza», dove le persone non avevano altri strumenti per manifestare e cambiare le proprie condizioni, giustificando quindi le condotte degli imputati.

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