L’anno era il 1990, il mese era maggio, il 19 per l’esattezza. Le cronache dell’epoca riportano la notizia di un agguato di camorra nel quale restano uccisi un venditore ambulante e suo figlio, Nunzio Pandolfi, di 19 mesi . Un bambino ammazzato nella città in festa per lo scudetto riconquistato, da qualche settimana Diego Armando Maradona aveva regalato il secondo ai napoletani dopo tre anni.

Don Franco Rapullino, parroco della chiesa di Santa Maria della Pace, disse nella sua omelia: «Fujtevenne da Napoli, ogni misura è stata colmata». Si rifiutò di celebrare l'eucarestia. Ai fedeli aveva parlato della camorra come di «un mostro che si è impossessato del quartiere, abbandonato dallo Stato, ma anche dei nostri cervelli, impedendoci di pensare». Furono giorni di dibattiti, gli scrittori si confrontarono su quelle parole di fuoco e rabbia.

Sono passati 33 anni, il Napoli è tornato meritatamente campione d’Italia, ma la città continua a piangere i suoi figli feriti o morti innocenti, per mano di camorristi, di killer in erba, di «teneri assassini» come li chiama il sociologo Isaia Sales nel titolo di un recente libro (pubblicato da Marotta e Cafiero), dove spiega che il problema dell’occidente sono le periferie e Napoli alla cintura che circonda la città, aggiunge centro storico e hinterland.

La bimba e l’aggravante

L’ultimo episodio è accaduto a Sant’Anastasia, pochi chilometri dalla metropoli. Due ragazzi, uno di 19 e l’altro di 17 anni, sono arrivati presso una gelateria e hanno cominciato a sparare all’impazzata, sono rimasti feriti una coppia e la loro piccola di dieci anni. Si abbassa l’età dei carnefici che premono il grilletto per conquistare il controllo di una strada, rispondere a un’occhiataccia, punire una banda rivale. A entrambi i giovani vengono contestati gli stessi reati: porto e detenzione di armi, una pistola e una mitraglietta, tentato omicidio aggravato dalla premeditazione e dal metodo mafioso. Le immagini dei sistemi di videosorveglianza li hanno ritratti mentre fanno più volte il giro della piazza in sella a uno scooter, armi in pugno, prima di sparare una decina di colpi. Si danno di gomito, si caricano a vicenda, la bambina stava mangiando un gelato.

La scarpa macchiata

Ora la piccola è fuori pericolo, dovrebbe farcela, invece è morto a marzo Francesco Pio Maimone, raggiunto da un colpo di pistola mentre era all’esterno di uno chalet di Mergellina, sul lungomare. L’ha ucciso un coetaneo, un omonimo, Francesco Pio Valda. Era irritato perché qualcuno gli aveva sporcato le scarpe, simbolo di potere e appartenenza.

Il dolore corale

C’è un video che spopola su tiktok e racconta meglio di ogni altra cosa il dolore collettivo, corale, di una famiglia e di una comunità che piange l’assenza. Francesco Merola, figlio di Mario, uno degli artisti più amati dal popolo di Napoli, canta: «Circa ’o permesso a Gesù, si stanotte quando viene, te fa sta n’ora ’e cchiù (chiedi il permesso a Gesù se questa notte quando verrai, ti farà restare un’ora in più, ndr)». Sul muro di un palazzo popolare viene scoperto un murale, i familiari di Francesco Pio Maimone ritrovano lì il suo volto. Un amico impugna una torcia da stadio, si legge una scritta sotto il viso gioioso del ragazzo scomparso: «Ci mancherà sempre qualcosa, l’importante è che a mancare non sia il sorriso». È il pianto collettivo di una Napoli che saluta per sempre un altro figlio suo.

Una città che accoglie turisti, riempie i vicoli, miscela modernità e tradizione e poi sprofonda nell’incubo della violenza che all’improvviso rovina i giorni e distrugge famiglie. «In alcuni quartieri ci sono ragazzini che non parlano italiano. La realtà di Napoli è cambiata quando è diventata narco-città, il controllo del traffico di droga ti fa diventare qualcuno. Oggi i ragazzi devono scegliere tra fare il barista a 500 euro o fare la sentinella al doppio o al triplo del compenso. Quando in una città le opportunità illegali sono più interessanti di quelle legali vuol dire che il contratto sociale si è spezzato», dice Sales.

Il determinismo sociale

Rispetto a 30 anni fa, sparano giovanissimi che sono figli di disperazione e assenze, danno sostanza al determinismo sociale che traccia una strada a questi ragazzi quando sono già in culla. Il carnefice che ha sparato uccidendo Francesco Pio è un predestinato e non è il solo, ricorda altre biografie di giovanissimi killer, con genitori assenti per carcere o morte violenta, esperienza pregressa in comunità, dove era entrato due anni prima dell’omicidio per spaccio di stupefacenti. I documenti che Domani ha consultato raccontano di un padre violento con la madre, sottoposta ad abusi e angherie, prima di essere ammazzato in un agguato di camorra. Francesco Pio Valda, in realtà, i genitori li aveva già persi prima, quando erano stati privati della potestà, con il bambino finito prima ai nonni, poi arrestati, e dopo tra le braccia di una zia.

Al ragazzo è rimasto come riferimento una sorella ventenne e già madre, i mesi in comunità non gli consentono di uscire e liberarsi della sua formazione intrisa di illegalità, un’appartenenza a logiche criminali. Fa uso di stupefacenti, viene ritrovato con il cellulare e scappa due volte dalla comunità, pochi mesi dopo la libertà si presenta davanti allo chalet per sparare a casaccio. Voleva punire il responsabile di quella macchia che gli aveva insozzato una scarpa. Ha ucciso un innocente.

Le ferite di Arturo

Nel dicembre 2017, a Napoli, nella centralissima via Foria, viene assalito e accoltellato Arturo Puoti, 17 anni. Volevano rubargli un cellulare, lo circondano in quattro e lo colpiscono ripetutamente con le lame. Si salva per miracolo, grazie alla celerità dell’intervento e alla bravura dei medici. La madre, la professoressa Maria Luisa Iavarone, da allora ha creato un’associazione, si chiama Artur, dal dolore all’impegno. «Dietro un ragazzino deviante c’è sempre un adulto irresponsabile; se un minore delinque, se un minore smette di essere precocemente bambino, è senz’altro per colpa nostra, degli adulti che dovevano guidarlo, aiutarlo ed educarlo», scrive nel suo libro Il coraggio delle cicatrici (Utet). Parla di eclissi di genitorialità, «i minori così annaspano ciecamente in un mondo senza adulti significativi, carenza che produce un’assenza totale del principio di autorità e che alimenta un onnipotente senso di impunità», aggiunge.

In quella storia di lame, ferite e rinascita c’è una costante: il determinismo sociale. Tre degli assalitori vengono condannati in via definitiva, uno era così piccolo da essere sotto la soglia della punibilità penale. Uno dei componenti della gang criminale si chiamava Antonio, sui social ricordava il papà con questa scritta: «Mio padre mi disse attento a dove metti i piedi e io gli risposi, attento tu… che io seguo i tuoi passi». Il padre, Antonio lo ha perso nel 2003. Si era impiccato nel carcere di Poggioreale dopo essere stato arrestato per aver rapinato e ucciso uno studente di 22 anni, Claudio Taglialatela. Antonio ha seguito proprio i passi del padre, i passi che Napoli fatica a cancellare. Non basta lo scudetto.

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