Per raggiungere Macerata partendo da Urbino abbiamo impiegato, con alcune soste, due ore abbondanti. La distanza è di circa 150 chilometri, e, tra strade collinari, vallate e piccoli centri dell’entroterra, abbiamo contato almeno dieci presidi ospedalieri, tra pronto soccorso, ospedali di comunità e punti di primo intervento. Uno ogni sedici chilometri. Una rete apparentemente fitta, che restituisce l’idea di una regione coperta da una struttura di servizi sanitari capillari.

Ma è anche dietro questa geografia che si nasconde la fragilità del sistema: molti ospedali sono sottodimensionati, mancano medici, letti per la degenza, diversi reparti di medicina d’urgenza sono stati chiusi e i pronto soccorso si trasformano in imbuti dove chi sta male rischia di restare su una barella (quando va bene) anche dieci ore o per giorni.

Si chiama boarding ed è quel meccanismo per cui, quando mancano i letti nei reparti o i reparti stessi, i pazienti restano in pronto soccorso. «È riconosciuto in tutta la letteratura medica come uno dei fattori che aumenta la mortalità e peggiora le prognosi», racconta un dirigente di pronto soccorso che ha chiesto di restare anonimo per tutelare il posto di lavoro. «È una delle cose più gravi che stiamo vivendo».

I pazienti in attesa li abbiamo visti un po’ dappertutto qui nelle Marche, e non ci sarebbe niente di strano se non fosse però che ci troviamo in una regione di appena un milione e mezzo di abitanti e in cui gli ospedali non mancano.

Medicina per ricchi

«La pianta organica del pronto soccorso in cui lavoro prevederebbe 18 medici, al momento ce ne sono dieci in servizio più il primario che non dovrebbe coprire turni. Il resto è coperto dai gettonisti che arrivano dalle cooperative. Sono professionisti esterni che spesso non conoscono le procedure e i protocolli locali. Così succede che chi lavora qui da anni deve sobbarcarsi più peso e finisce per dimettersi».

Negli anni, in particolare dal 2021, nelle Marche si è registrato un aumento delle dimissioni di medici ospedalieri del 39 per cento.

A questa mancanza, la Regione ha risposto con l’apertura di tre sedi della Link University Campus, che ha chiesto e ottenuto, nonostante tutte le università del territorio avessero espresso parere contrario, l’accreditamento per aprire corsi di Medicina nelle Marche.

Ma il presidente Acquaroli ha tirato dritto e ha pensato di risolvere un problema pubblico con un investimento privato: chi vorrà infatti frequentare Medicina e Chirurgia dovrà spendere 19.800 euro l’anno, quasi 120mila per completare l’intero corso di studi. Ma dal centralino, pur non avendo informazioni precise da fornirci sullo svolgimento dei corsi, assicurano che sono previsti piani di finanziamento per gli studenti.

«Secondo la normativa», spiega il consigliere dem Romano Carancini, «prima di autorizzare un’università privata, il presidente avrebbe dovuto condurre una vera istruttoria: strutture, docenti, sostenibilità del progetto. Tutto questo dagli atti non risulta. In quattro righe si dice solo che avremo più medici».

Il presidente del consiglio di amministrazione della Link University è infatti Pietro Luigi Polidori, figlio di Francesco Polidori, già noto come fondatore di Cepu e altre università telematiche, che risulta avere finanziato la Lega per diverse migliaia di euro. Solo nel 2022/2023: centomila.

Oscurantismo al potere

Intanto il sistema sanitario continua ad ammalarsi e a non garantire, oltre che le cure, anche l’accesso a diritti fondamentali come l’interruzione volontaria di gravidanza. «Il braccio di ferro tra popolazione e Regione ha raggiunto dei picchi forti.

L’assessore alla sanità Saltamartini ha dichiarato che lascia ai singoli primari il loro pieno potere di decidere come procedere nelle singole strutture, ma i primari sono impiegati pubblici e le forze al governo hanno reiteratamente manifestato una posizione contraria all’aborto», spiega Chiara Fonzi di Laiga, Libera associazione italiana ginecologi non obiettori per l’applicazione della 194. Alla sua voce si unisce quella dell’attivista di Pro Choice-Rica e collaboratrice dell’Aied, Associazione italiana per l’educazione demografica, di Ascoli Piceno, Marte Manca, che sul territorio accompagna direttamente le donne nelle strutture sanitarie pubbliche per ottenere l’interruzione volontaria di gravidanza.

«L’ultima che ho seguito proprio in questi giorni ha impiegato un mese per potere abortire a San Benedetto del Tronto. A un’altra a Civitanova Marche è stato chiesto, dal personale antiabortista presente dentro al consultorio, se il suo compagno fosse d’accordo», racconta. E aggiunge: «L’aborto regge ancora in questa regione grazie alle realtà dal basso e all’associazione Aied con cui collaboro. Senza queste reti avremmo solo macerie».

Ed è questa l’impressione che si ha riprendendo la strada per uscire dalle Marche, quella di una regione con gli ospedali rivestiti e colorati a tinte accese, le piazze principali pulite e a tratti ben rifinite, facciate nuove qua e là.

Come in ogni campagna elettorale che si rispetti, mentre politici che arrivano anche da Roma spuntano in ogni comune, grande o piccolo che sia, per fare la conta dei voti e qualche passerella facile.

Ma guai a dire che la sanità è in sofferenza.

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