Ogni epoca ha bisogno di allevare la sua pietà. Dal 2014 le persone migranti scomparse nel Mediterraneo sono 31.287, secondo il cruscotto Missing Migrants Project dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Numeri certi non ce ne sono. L’Oim nel suo rapporto sottolinea come «la maggior parte dei corpi recuperati nel Mediterraneo rimanga non identificata, a causa della mancanza di dati completi e di protocolli standardizzati».

Nel Mediterraneo non muore nessuno. Restituirgli un nome e un cognome è la moderna compassione. «Il modo in cui gestiamo i morti dice molto di una società», spiega a Domani la professoressa Caroline Wilkinson della Liverpool John Moores University. Wilkinson, nell’ottobre del 2023, ha lanciato la Migrant disaster victim identification (MDVI) action, che riunisce competenze provenienti da tutta Europa per sviluppare nuove tecnologie e processi nell’identificazione delle vittime.

«L’enorme numero di migranti non identificati costituisce una crisi umanitaria globale», spiega, «e la necessità di identificare i morti e la sua importanza per scopi umanitari, amministrativi, giudiziari e di altro tipo sono valori universali sanciti dal diritto nazionale e internazionale, tra cui le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e i loro Protocolli aggiuntivi del 1977».

Un lavoro complicato

Dare un nome al cadavere di una persona migrante è un percorso irto. I 31.287 annegati nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni hanno corpi irriconoscibili perché bolliti dal mare. Molti di loro viaggiano senza documenti o con documenti falsi. Secondo Wilkinson, gli attuali processi di identificazione delle vittime di disastri migratori sono «inadeguati e sottofinanziati».

Ciò è in parte dovuto «alla mancanza di comunicazione tra i paesi di origine e di arrivo e tra i diversi attori coinvolti»: responsabili politici, professionisti forensi, gruppi umanitari e organismi governativi. «Molti paesi europei non hanno la capacità o le risorse per gestire adeguatamente il numero elevato di persone migranti decedute e le competenze forensi pertinenti sono sparse in tutto il continente, con centri specializzati situati solo in alcuni paesi».

Poi ci sono le difficoltà di comunicazione con le famiglie di origine. Poiché molte persone migranti tentano la traversata marittima tramite bande di trafficanti e rotte illegali, Wilkinson spiega che «la comunicazione con i parenti dei dispersi può comportare pericoli per la famiglia e i parenti possono essere riluttanti a parlare con le autorità per paura di indagini penali, costi funerari elevati o esclusione sociale».

Le paure dei familiari

Nemmeno la morte soffia via la paura delle famiglie. La madre di un ragazzo migrante partito dall’Etiopia confessò di «non avere dove andare, a chi chiedere». «Per me è impossibile andare nel paese in cui mio figlio è scomparso perché non posso permettermelo. Quello che posso fare è ricevere notizie dal “delaloch” (il contrabbandiere, nda) che ha facilitato il suo viaggio».

Così la raccolta dei dati ante-mortem diventa una delicata architettura di relazioni e di equilibri con le famiglie e la comunità della vittima. «L’invisibilità delle famiglie ostacola l’identificazione. Finché mancherà la comunicazione tra i paesi di arrivo europei e i paesi di origine delle persone migranti, questo processo resterà impossibile», racconta l’action chair di MDVI.

Alcuni organismi internazionali, come il Comitato internazionale della Croce Rossa (ICRC), la Commissione internazionale per le persone scomparse (ICMP) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) stanno cercando di creare database centrali per raccogliere immagini, numeri e luoghi di sepoltura delle persone migranti, ma secondo Wilkinson «finora non esiste una raccolta e catalogazione standardizzata dei profili biologici o delle caratteristiche identificative. Dopo un disastro, prove critiche che le persone migranti portano con sé, come i telefoni cellulari, vengono spesso trascurate».

Gli identificatori primari (DNA, dentale, impronte digitali) sono spesso inadeguati o persino impossibili da ottenere, a causa di ostacoli legali e delle condizioni socioeconomiche dei paesi di origine, che comportano una mancanza di cure dentali regolari, registri delle impronte digitali e documentazione familiare.

«Chi non ha un nome non ha una storia»

Spesso ci si deve affidare alle fotografie della persona scomparsa pubblicate sui social media. Ad agosto, Wilkinson e i suoi colleghi hanno pubblicato uno studio in cui le immagini post-mortem di 29 migranti deceduti identificati sono state confrontate con un archivio di immagini scattate in vita. Seguendo un protocollo che avevano precedentemente sviluppato, i ricercatori hanno esaminato diverse aree del viso per vedere se potevano abbinare gli individui deceduti alla persona vivente corretta. Il tasso di precisione complessivo era dell’85 per cento.

Ma a mancare, insieme alla consapevolezza politica, sono i soldi. «Ci sono molti esperti di identificazione e ong che vogliono essere coinvolti in questi casi», dice Wilkinson, «ma non ci sono fondi per facilitare questo lavoro. Un finanziamento centrale dell’Ue per sostenere le risposte garantirebbe un’azione più rapida e risposte più mirate».

«Chi non ha un nome non ha una storia», scriveva Primo Levi. La mancata identificazione delle persone nel Mediterraneo è l’ultima violenza sui fuggitivi. Senza identità è l’umanità a scomparire. Prendere i numeri e farli tornare persone è la missione di MDVI. Dare loro dignità, almeno da morti, poiché da vivi l’Unione europea non ci è riuscita.

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