Sostenibilità. È questo l’innegabile mantra che sembra guidare il nuovo corso della ristorazione italiana e non solo. Una forte attenzione alla filiera dei prodotti, che siano appunto sostenibili in tutte le loro fasi, sia dal punto di vista ambientale ma anche economico pagando il giusto i produttori così da non schiacciarli dentro logiche di economie di scala che non garantiscono appunto né la qualità né la profittabilità.

Così come sostenibilità delle strutture, tra risparmio energetico e consumi controllati, ma anche sostenibilità degli ecosistemi locali, privilegiando prodotti e produttori locali e magari anche rilanciando micro-settori in declino e riscoprendo vitigni, flora e fauna del territorio.

Tutto interessante e tutto ammirevole, tanto da aver costruito perfino un riconoscimento della più blasonata e agognata guida con la stella verde della Guida Michelin. Resta però sullo sfondo un nodo critico, che rischia di vanificare ogni tentativo di sostenibilità rendendolo anzi particolarmente contraddittorio e paradossale: il lavoro.

Perché è sotto gli occhi di tutti che proprio nel momento storico in cui si discute della sostenibilità nella ristorazione il lavoro nel settore sembra sempre meno sostenibile, la fuga dalle cucine e dalle sale è costante, che sia l’osteria del paese o il fine dining cittadino, e altrettanto complesso è diventato trovare lavoratori.

Le cause sono tanto note quanto, spesso, rimosse. Da un lato c’è un tema di orari e di turni, il cui unico elemento di certezza è l’inizio, e non la fine. Quasi che nella ristorazione italiana (generalizziamo, chiaramente) l’incertezza delle ore lavorate sia elemento integrante del modello organizzativo e gli straordinari non retribuiti siano necessari per mantenere profittevole una attività che, se dovesse pagarli davvero, crollerebbe.

E il tema della retribuzione non tocca soltanto il tema dell’extra-lavoro non pagato, sappiamo anche che il problema salariale in Italia è più ampio e, negli ultimi anni soprattutto dopo la pandemia, l’opportunità di scegliere lavori che, a parità di (basso) salario, garantiscono certezze nelle ore lavorate, ritmi più regolari, weekend liberi, è stata presa molto più in considerazione rispetto al passato.

Le conseguenze per il settore

Tutto questo però ha conseguenze enormi per il settore. Secondo Confcommercio Milano, una delle piazze principali dalla quale osservare queste dinamiche, l’81 per cento delle imprese del settore fatica a trovare personale. Ma un dato è ancor più interessante. Secondo le stime di Fipe se nel 2020, durante la pandemia, si sono persi circa 250 mila occupati e nel 2021 ne sono stati recuperati solo 50mila.

Un ammanco di 200mila occupati che ha inevitabilmente indebolito il settore ma che non si riesce a riportare indietro. Troppo spesso si individuano cause fin troppo semplicistiche, come la tesi secondo la quale il reddito di cittadinanza sarebbe il principale responsabile.

Tesi a dir poco irrealistica se pensiamo che la cifra media mensile percepita da un percettore è di 500 euro, con la quale anche solo pensare di sopravvivere a Milano o in altre grandi città è impossibile. Ma anche se, paradossalmente, questo fosse vero sarebbe comunque importante chiedersi perché migliaia di persone abbandonano un settore preferendo piuttosto una vita a 500 euro, magari ritornando presso le famiglie d’origine.

Modelli insostenibili

Danish chef Rene Redzepi poses for photographers prior to the World's 50 Best Restaurant Awards in London, Monday, April 29, 2013. Redzepi's restaurant Noma in Copenhagen, Denmark, won the second place. (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

Il tema è complesso e variegato, ha ragioni diverse a seconda che si tratti di personale di sala o di cucina, in locali più semplici o in locali di lusso, in città o in periferia. Molta discussione ha generato l’annuncio della chiusura di uno dei ristoranti simbolo del fine dining internazionale, il Noma di Copenaghen.

Lo chef Rene Rezdepi, colui che ha portato la cucina nordica ad essere presa come canone estetico in tutto il mondo, ha dichiarato che il ristorante chiuderà dal 2024 a causa dell’insostenibilità dei costi e che cambierà modello di business diventando sempre di più un laboratorio che, periodicamente, prenderà la forma di quello che sembra essere un temporary restaurant tematico. 

Lo chef ha dichiarato che il suo modello di business non sarebbe più sostenibile, soprattutto nel momento in cui ha iniziato a non voler più fare tirocini gratuiti nei quali giovani aspiranti chef lavoravano un numero elevato di ore senza percepire alcun stipendio. facendo così passare il messaggio che la grande ristorazione non reggerebbe senza lo sfruttamento della forza lavoro gratuita. Un messaggio che se fosse definitivo sarebbe preoccupante, ma che per fortuna sembra più una strategia di comunicazione e di rebranding che una pietra tombale sulla ristorazione.

Ma il problema resta, i tirocini gratuiti in Italia esistono ma sono inseriti all’interno di un percorso formativo e gestiti dalle scuole. Motivo per cui è proprio dalla loro progettazione che occorrerebbe partire, avendo rispetto per giovani che lavorano non pagati all’interno del loro percorso scolastico progettando i loro tirocini in modo serio e con una piena valenza formativa.

Questo consentirebbe alle imprese di avere per un periodo di tempo lavoratori senza costi, ma con un onere formativo che se ben interpretato è un costo indiretto, ma proprio questo onere dovrebbe essere il primo passo per poi manifestare la volontà di inserire la persona con un vero contratto di lavoro al termine del tirocinio.

Un periodo di prova insomma, un patto tra due istituzioni, la scuola e il ristorante, con al centro il futuro professionale di un giovane, sia esso in sala o in cucina anche nei migliori ristoranti. In questo modo il giovane stesso avrebbe la possibilità di capire se si tratta davvero della sua strada, facendo un passo in più rispetto a quello che vive nei laboratori scolastici.

Se poi questo venisse fatto non attraverso i tirocini ma con il contratto di apprendistato di primo livello, spesso agevolato dalle regioni, il legame sarebbe ancora più solido. Per non parlare di quelle formule più avanzate, certo non possibili in tutte le scuole, come i ristoranti didattici.

Qualcosa si muove

Resta comunque sullo sfondo il tema dei modelli organizzativi, e anche su questo fronte sono emersi ultimamente esempi interessanti. Contrada Bricconi, ristorante di fine dining montano aperto in provincia di Bergamo da qualche mese, ha deciso di alzare il prezzo del menu per poter ridurre il numero di tavoli e il numero di servizi settimanali così da provare a rendere più sostenibile il lavoro dei suoi collaboratori in sala e in cucina.

O casi di ristoranti che hanno ridotto complessivamente il numero dei servizi, eliminando solitamente il pranzo, aggiungendo il doppio turno serale che consente quindi, nella teoria, di raddoppiare l’incasso medio di quello che un tempo era un servizio unico e, allo stesso tempo, ottimizza l’allocazione delle persone che saranno più occupate avendo appunto due servizi.

Strategie del genere sono messe in atto principalmente nelle grandi città, si pensi a ristoranti come Trippa a Milano che hanno tra i primi introdotto questo modello poi seguito da molti. O anche ristoranti che chiudono sia il sabato che la domenica (per esempio Remulass, sempre a Milano), soluzione che può incontrare l’interesse di chi vuole lavorare nel settore ma senza rinunciare al fine settimana. 2

Tutte soluzioni che inevitabilmente ad un primo contraccolpo sono viste negativamente dalla clientela, abituata a concepire il ristorante come luogo sempre a disposizione e anzi sempre di più come alternativo proprio ai ritmi lavorativi “normali” e quindi aperto proprio quando non si lavora e fino a tardi.

Reazione legittima soprattutto nel panorama italiano e cittadino, e che dimostra quanto sia importante anche la consapevolezza del consumatore medio nel processo di sostenibilità del lavoro nel settore. Senza clienti consapevoli di quello che tante volte sta dietro alla possibilità di locali sempre aperti sarà difficile adattare le loro abitudini. E infatti al momento sono soprattutto ristoranti con una clientela altamente fidelizzata, che non hanno problemi di coperti vuoti, a potersi permettere queste scelte avveniristiche.

Il dibattito è aperto e il caso Noma è stato solo la punta dell’iceberg. I segnali che il lavoro nel settore vada completamente ripensato sono molti ed è possibile che questo processo di rinascita lasci per strada vittime, soprattutto coloro che adottano modelli che senza il lavoro a basso costo o irregolare sarebbero insostenibili.

Ma si tratta di un trend probabilmente non invertibile, basta considerare le dinamiche demografiche che svuotano le coorti anagrafiche giovanili, spesso esercito di riserva per il settore, soprattutto nelle grandi città universitarie. Potremmo però essere davanti a un momento di svolta che avrebbe anche il compito di scardinare quel cortocircuito secondo il quale basterebbe la passione a giustificare sforzi e fatiche non retribuite e l’essere inseriti in modelli organizzativi di fatto inesistenti.

Questo rischia, nel contesto odierno più del passato (per ragioni che in molti stanno cercando di approfondire), di vanificare proprio la passione che necessita non di essere sfruttata ma di incontrare qualcuno che la valorizzi, la formi e la faccia crescere. Il fiorire continuo di locali, il turnover costante, i conti che faticano a tornare sembra abbiano messo in secondo piano questo aspetto. Ma la realtà ce lo sta restituendo, con gli interessi.

Per questo ripartire dalla formazione, per costruire una nuova generazione di lavoratori e di ristoratori, sembra essere l’unica vera strada. Considerando la formazione alberghiera come formazione di serie A, degna di un paese con un potenziale turistico e di accoglienza enorme, e che non può che rigettare l’idea che il lavoro in quest’ambito sia un ripiego o una scelta secondaria.

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