Alla fine, papa Leone XIV non ha detto nulla sulla presenza delle 1.500 persone Lgbtq+ che sabato hanno preso parte al pellegrinaggio de La Tenda di Gionata. Il giorno dopo la festa dei cattolici queer, il timore di un ritorno al silenzio
Alla fine, le parole di papa Leone XIV non sono arrivate. Nell’Angelus, che il pontefice ha pronunciato alla fine della cerimonia di canonizzazione di Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, nessuna parola al pellegrinaggio fiume che nel pomeriggio di sabato ha portato 1.500 persone della comunità Lgbtq+ ad attraversare la Porta Santa per la prima volta in un evento approvato dalla Santa Sede.
Eppure – assicurano fonti vaticane – sulla scrivania di Leone due righe di saluto ai «pellegrini de La Tenda di Gionata» erano state posate, pare per sua stessa volontà. Se non altro, a confermare che il successore di Francesco fosse a conoscenza dell’evento, è stato monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Conferenza episcopale italiana, che al termine della messa celebrata il 6 settembre nella Chiesa romana del Gesù alla presenza di una marea di cattolici arcobaleno, ha ricordato un incontro con il pontefice, che gli ha assicurato tutto il suo sostegno.
Una parola non significa niente, ma per chi crede nel Vangelo del Cristo rinnegato dai suoi stessi discepoli, è il silenzio a gravare.
Il pellegrinaggio degli ultimi
La tenda di Gionata, che da anni accompagna le persone credenti Lgbtq+, così come le associazioni di genitori con figliə queer, sa bene come, nella chiesa cattolica, casa e chiesa siano state spesso un ossimoro: «Liberaci – liberami – da qualsiasi tentazione polemica o ideologica, perché solo te vogliamo servire e seguire, così che venga il tuo Regno e nessuno debba più sentirsene escluso, nessuno debba più temerlo come una minaccia, per tutti, tutti, tutti, il tuo Regno sia vita della vita», ha detto monsignor Savino nel cuore della sua omelia, annegata dal boato degli applausi e dallo scorrere lento di qualche lacrima.
Mai la chiesa del Gesù aveva visto tra i banchi lo sventolio dei ventagli del Pride, fedeli transgender pregare assieme a suore e sacerdoti mostrando, in un’etimologia rovesciata, che la testimonianza di fede ha sempre, nella sua storia, l’anticamera nel martirio.
C’era tutto questo e altro nei volti sobri o truccati delle persone queer che hanno attraversato la Porta Santa: «È giusto che sia qui, ad accompagnare un gruppo di fedeli della mia parrocchia, perché è importante far sentire loro la vicinanza» ha detto don Simone, il cappellino rainbow in testa metafora perfetta di una comunità che indossa il proprio orgoglio per proteggersi da chi pretende di portare la luce di tradizione e dottrina, salvo poi bruciare tutto.
La nuova immagine dei giovani
Così, quando alla fine della canonizzazione dei due santi adolescenti Acutis e Frassati, papa Leone non ha detto mezza parola sull’evento, il pensiero che la festa di sabato 6 settembre sia stata un sogno, è balenato nelle menti di molti. Gli stessi però, che cantavano e pregavano mentre la facciata di San Pietro si faceva più grande, non hanno lasciato che la delusione si mischiasse alle lacrime di gioia che hanno rigato i volti: «Non ci aspettiamo che una persona ci autorizzi a sentirci a casa, noi siamo a casa e camminiamo insieme» ha detto Francesco, venuto da Firenze.
La canonizzazione di due santi giovani il giorno dopo il pellegrinaggio Lgbtq+ è la resa plastica di due immagini antitetiche di chiesa, una che chiede la si ascolti e l’altra, più forte perché istituzionale, che trova nuovi modi per essere appetibile a una gioventù che – lo dicono i numeri – scappa dalle chiese, trova risposte di senso altrove. Le persone credenti queer, al contrario, non solo hanno riempito la Chiesa dei gesuiti, ma hanno rivendicato il loro piccolo spazio di preghiera, non ascoltarli suona come un peccato d’omissione.
Nel nome di Francesco
Sabato, lungo via della Conciliazione, in molti salutavano i pellegrini arcobaleno come nelle parate più belle, quando il supporto non ha bisogno di parole, ma passa dai gesti. In tantə avrebbero voluto una parola coraggiosa, una parola scomoda; eppure aver preso parte a un evento imbracciando l’esile croce arcobaleno, attraversare con essa la Porta Santa, ostenderla di fronte a Pietro, il papa pescatore e fragile su cui Cristo ha issato la chiesa, ha avuto il sapore di quella verità evangelica che rende liberi.
Il giorno dopo, in molti di loro hanno sentito il bisogno di salutare papa Francesco, la mano che ha reso possibile questo evento, autorizzandolo certamente, ma anche facendosi prossimo: «Con lui sarebbe stato diverso, avremmo sentito davvero sostegno, ci manca» dice Luca, un pellegrino. Nella sua bocca un po’ di amarezza, gli occhi lucidi, pieni di speranza.
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