L’11 settembre scorso i telespettatori egiziani hanno assistito a un evento tanto insolito quanto maestoso: la presentazione della Nuova strategia egiziana per i diritti umani. Musiche, luci e applausi per una diretta fiume di tre ore con ministri, membri della società civile graditi al governo e il discorso finale dello stesso presidente Abdel Fattah al Sisi.

Interventi puntellati da video rassicuranti: detenuti in penitenziari modello che vogliono reinserirsi nella società, operai felici di poter votare per la propria rappresentanza sindacale, cittadini soddisfatti della riforma dei sussidi sui beni di prima necessità.

Cambio di passo apparente

Per un attimo l’Egitto è sembrato un paese molto diverso da quello che siamo abituati a vedere e raccontare. Senza 60mila detenuti di coscienza, senza le elezioni pilotate degli organismi sindacali, senza esecuzioni capitali, giornalisti in carcere e penitenziari sovraffollati. Ma l’effetto è durato poco, anzi non è mai iniziato.

Nelle stesse ore George Ishak, membro del Consiglio nazionale per i diritti umani (un organismo semi-governativo e dunque vicino alla presidenza) veniva arrestato all’aeroporto del Cairo. Cambia la forma ma non la sostanza, insomma, come spesso accade nei regimi autoritari.

L’unico cambio di passo certificabile è che l’espressione “diritti umani” non era apparsa mai così tanto nell’agenda di governo del Cairo come nelle ultime settimane.

Egyptian activist George Ishak speaks during a press conference held by several political parties decrying proposed constitutional amendments, in Cairo, Egypt, Wednesday, March 27, 2019. Opposition parties are urging Egyptians to vote against constitutional amendments that would potentially allow President Abdel-Fattah el-Sissi to remain in power until 2034. (AP Photo/Nariman El-Mofty)

Il 15 settembre è stato lo stesso Sisi a tornare sull’argomento. In una telefonata alla tv di Stato, ha annunciato che tra poche settimane verrà inaugurata la più grande prigione del paese. Un carcere modello, garantisce il presidente, in pieno stile americano.

«Il detenuto sconterà la sua pena in modo umano: godrà del movimento, della sussistenza e dell’assistenza sanitaria», ha assicurato prima di sottolineare, nel corso dello stesso intervento, che «in Egitto non ci sono detenuti politici né violazioni dei diritti umani».

Eppure negli otto anni della sua presidenza sono già state costruite 27 carceri, un terzo del totale del paese. Al momento sono 78, destinate appunto a diventare 79, con l’ultima nata che potrebbe essere la prima di una nuova serie. Il cambio di passo apparente, in ogni caso, non stupisce gli analisti: «Da tempo», afferma Joey Shea, ricercatrice del Middle East Institute, «ci sono pressioni interne ed esterne sul regime per affrontare la catastrofica situazione dei diritti umani».

Le (blande) pressioni statunitensi Tra le moral suasion esogene citate da Shea occupa ovviamente un posto di rilievo il nuovo corso della presidenza americana. Il 14 settembre il portavoce del dipartimento di Stato USA ha annunciato che l’amministrazione Biden tratterrà 130 milioni di dollari di aiuti militari all’Egitto fino a quando il Cairo non adotterà misure specifiche proprio sul fronte dei diritti umani. Il rapporto tra Il Cairo e Washington è cambiato dopo la fine del mandato di Trump.

Prima ancora della sua elezione alla Casa Bianca, Biden aveva affermato che non ci sarebbero stati più assegni in bianco per quello che Trump aveva definito il suo dittatore preferito, Abdel Fattah el-Sisi. Ma a dispetto degli annunci, il recente provvedimento dell’amministrazione americana, anche se in rottura con il passato, è blando.

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Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno definito «insufficiente» la somma trattenuta, che rappresenta meno della metà dei 300 milioni di aiuti previsti, definendo la mossa un "tradimento" dell’impegno degli Stati Uniti a promuovere i diritti umani. «La pressione che il governo americano sta facendo sull’Egitto è molto limitata e indica che Biden andrà avanti con il supporto nonostante gli abusi che Il Cairo perpetra contro i diritti umani», sostiene Vivienne Mattew Bone, professoressa di filosofia politica all’università olandese di Radbound e accademica che da anni segue il sistema di polizia in Egitto.

Anche secondo Shea «i casi dei prigionieri politici preoccupano da anni il governo degli Stati Uniti ma quello che è avvenuto non sembra segnalare alcun cambiamento fondamentale di rotta sui diritti umani».

D’altronde, il posizionamento strategico e militare egiziano per Washington nell’area mediterranea e mediorientale resta molto importante. Lo dimostra il ruolo di mediazione del Cairo tra Israele e Hamas durante l’offensiva israeliana nella striscia di Gaza lo scorso maggio. Ruolo che ha permesso a Sisi di sciogliere molte delle iniziali freddezze del nuovo presidente Biden.

Sul piano delle relazioni internazionali l’Egitto ha pianificato subito una strategia per rendersi credibile alla Casa Bianca e continua a farlo: l’ultima mossa in ordine di tempo è la visita del premier israeliano Naftali Bennett a Sharm el-Sheikh, la prima di un leader di governo israeliano dopo dieci anni.

E negli ultimi mesi è come se il Cairo stesse esibendo lo stesso approccio rispetto ai diritti umani e al sistema di garanzie del paese. Il mix è molto simile: annunci dalla retorica imponente e poche vere concessioni nelle vicende giudiziarie che coinvolgono esponenti della società civile. Qualche esempio? Lo scorso luglio sei noti attivisti dei diritti umani sono stati rilasciati durante la festività musulmana dell’Eid al-Adha.

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Nelle scorse settimane, invece, il procuratore generale del Cairo ha archiviato la posizione di diversi avvocati e Ong all’interno di un’indagine per finanziamenti stranieri ricevuti da avvocati e organizzazioni per i diritti umani. Ma il procedimento, ormai decennale, resta in piedi per molti altri imputati. «Sono elargizioni modeste, indicano soltanto che il presidente Sisi è disposto ad apportare modifiche almeno estetiche in risposta alle richieste della nuova amministrazione americana», conferma Shea.

Anche i dettagli di messa a punto e comunicazione del presunto nuovo corso aiutano a comprendere quanto la questione stia a cuore al regime. Il quotidiano indipendente Mada Masr, citando fonti governative, ha riportato che il governo egiziano ha iniziato a discutere della Nuova Strategia per i Diritti Umani a novembre del 2018. Il primo ministro Mostafa Madbouly aveva istituito un Comitato supremo permanente per i diritti umani che raccoglieva i rappresentanti di diversi ministeri.

Il Comitato, però, si è riunito solo 20 mesi dopo e i lavori sul nuovo documento sono iniziati solo a luglio del 2020. Il nuovo testo era già pronto dallo scorso giugno ma Sisi in persona avrebbe ordinato di attendere per modificare la sua presentazione: invece di una normale conferenza presso il ministero dell’Interno ha preteso un lancio in grande stile nella nuova capitale amministrativa egiziana.

La versione finale è composta da 78 pagine, divise in quattro capitoli tematici che vanno dai diritti politici a quelli dei disabili e delle donne. «È tutta retorica, è solo un documento di facciata», dice Vivienne Mattew Bone.

«Sisi dice che migliorerà le istituzioni, che il prossimo anno sarà l’anno della società civile. Ma sono solo parole. È sufficiente vedere cosa sta facendo con le carceri. Ha detto che ci sarà un nuovo penitenziario in stile americano.

Tutti sanno che verrà usato per imprigionare altri attivisti o chiunque respiri in una direzione che non è gradita al governo».

Gli attivisti detenuti

Anche il caso giudiziario che ci riguarda più da vicino, quello di Patrick Zaki, ha conosciuto un potenziale cambio di passo. Dopo 19 mesi di custodia cautelare, il giovane ricercatore dell’Università di Bologna è stato finalmente rinviato a giudizio. Ma secondo Vivienne Mattew Bone «dobbiamo restare cauti nel collegare la vicenda di Patrick a questa nuova strategia.

L’iter che attraversano i detenuti politici spesso è casuale. Questa volta i giudici hanno rispettato i termini legali per il rinvio a giudizio perché comunque si tratta di un caso che ha avuto molto rilievo a livello internazionale, ma non possiamo essere certi del motivo che li ha spinti a farlo».

Le parole e le iniziative del presidente Sisi non sembrano convincere nessuno. Ancora di meno gli attivisti e i parenti dei detenuti di coscienza.

«Se l’Egitto volesse dimostrarsi credibile sui diritti umani potrebbe fare delle cose molto semplici. Per esempio, rilasciare i prigionieri politici», dice Céline Lebrun-Shaath, moglie dell’attivista Ramy Shaath, detenuto dal 2019. Ramy è figlio di Nabil Shaath, un alto quadro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ed è stato a lungo rappresentante egiziano del BDS, il movimento globale che chiede il boicottaggio di Israele.

È stato incriminato per concorso in associazione terroristica e minaccia della sicurezza nazionale, assieme ad altri colleghi con i quali aveva fondato un gruppo per i diritti umani poco prima del suo arresto.

Grazie alla campagna messa in piedi dalla moglie, cittadina francese, la sua storia è finita sui media di tutto il mondo ma non è bastato. «Tutto quello che sta succedendo a Ramy è al di là di qualsiasi confine legale. Prima di tutto non è mai stato rinviato a giudizio e i limiti dei due anni sono già stati superati. Ora non ho alcuna speranza che la situazione di mio marito possa migliorare. Credo che questa nuova strategia si dimostrerà solo una scatola vuota».

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