La questione della dimensione delle classi scolastiche è lungamente dibattuta. Viene sollevata, periodicamente, nella critica alle posizioni governative che, a loro volta, ne denunciano la scarsa rilevanza sul piano delle performance degli studenti.

L’idea delle “classi pollaio” è stata ripresa, di recente, in un paio di articoli di stampa (il Sole24 ore del 30 giugno 2025 e Il Fatto Quotidiano del 1° luglio 2025), in cui si afferma, citando in anticipo uno studio dell’Invalsi, che la numerosità delle classi non peggiora i risultati dell’apprendimento.

Il tema è politicamente rilevante: può legittimare, infatti, la riduzione delle spese dell’istruzione e ha una sua continuità bipartisan, poiché segue il punto di vista dominante dagli anni ’90 in poi nel campo della ricerca. Eppure, la base empirica di tale visione presenta dei limiti piuttosto importanti che dovrebbero far nascere più di un dubbio sulla desiderabilità politica di un incremento delle dimensioni delle classi.

Le alternative di ricerca

Per mettere a fuoco tali limiti seguiremo le tracce del libro “Rethinking Class Size” di Peter Blatchfort e di Anthony Russell, pubblicato nel 2020 e disponibile in open access sul sito dell’UCL. Il libro scaturisce da una ricerca trentennale quanti-qualitativa sulla dimensione della classe e rappresenta il programma conoscitivo più ampio sinora realizzato sul tema. Come si vedrà, dai contenuti del libro emerge che siamo alla “terza generazione” degli studi sul tema, ma l’agenda della politica è bloccata nella posizione egemonica.

La ragione dello stallo, a nostro avviso, risiede nella forza politico-epistemologica che è in grado di mobilitare la visione che considera alla stregua di un mito l’idea che le piccole classi abbiano risultati positivi sui risultati scolastici. La visione corrente è, infatti, sostenuta da tre riferimenti di peso: 1) i modelli econometrici di Eric Hanushek 2) la meta-review di John Hattie e 3) le comparazioni tra paesi sulla base dei risultati Ocse-Pisa coordinato da Andreas Schleicher. I tre riferimenti sono presenti nella maggior parte dei report nazionali (inclusi i nostri) e rappresentano, potendo far leva su una amplissima cassa di risonanza mediatica, la doxa al livello globale nelle politiche educative

La visione dominante, sostengono Blatchford & Russell, ha, tuttavia, due limiti importanti: a) una base empirica molto parziale, malgrado la sua estensione e b) uno sguardo distante che non entra nel merito di ciò che si verifica nelle classi. Il primo limite riguarda il fatto che le misure di performance riguardano solo le conoscenze di matematica e literacy. Il secondo limite riguarda il riduzionismo operato nei confronti delle variabili prese in considerazione.

Per superare tali limiti Blatchford & Russell, e anche una seconda e una terza generazione di un network di ricercatori al livello internazionale, analizzano gli effetti delle dimensioni della classe su tutte le conoscenze scolastiche e oltre la questione degli apprendimenti scolastici. Le dimensioni della classe influenzano, ad esempio, come l’insegnante governa la classe, il tipo di relazioni che si sviluppano tra gli studenti, la valutazione, la programmazione delle attività, il layout della classe, etc.

La politica delle piccole classi

Aumentare la numerosità delle classi, seguendo i risultati di ricerca emergenti, non è, dunque, una decisione da prendere a cuor leggero. Seguire la visione dominante, vuol dire attribuire poco valore a ciò che avviene in una classe scolastica, renderla equivalente ad una somma di individui che si raggruppano per seguire esclusivamente lezioni e valutazioni standardizzate. Implica sostenere una standardizzazione al ribasso nelle politiche scolastiche, per la quale ciò che importa sono solo performance scolastiche misurabili mediante test e su poche materie. Classi scolastiche più ampie, infatti, sono più difficili da governare, producono una riduzione del tempo educativamente valido, rendono complicati gli interventi di differenziazione e di adattamento in special modo con gli allievi più vulnerabili, producono un aumento dello stress dell’insegnante.

Ridurre la numerosità delle classi, d’altro canto, non produce in maniera automatica effetti benefici nell’esperienza educativa (e ciò potrebbe spiegare il mancato riscontro nelle rilevazioni standardizzate e lo scetticismo di Hattie nella sua meta-review) necessitando di standard professionalità elevati e investimenti conseguenti. Una politica delle piccole classi, sembrano avvertire tra le righe Blatchford e Russell, è, però possibile, pur richiedendo il passaggio ad una prospettiva traslazionale in cui si costruisce un ponte tra saperi scientifici e professionali. Nel quadro di tale politica, le classi scolastiche sono analizzate in maniera situata come spazi socio-materiali nelle quali l’esperienza educativa si sviluppa in maniera non lineare (il ‘beautiful risk of education’ direbbe Biesta).

Si può, del resto, argomentare che la politica delle piccole classi non è uno spreco di risorse e ha anche una sua convenienza economica. Aumentare la dimensione delle classi può produrre un risparmio nella spesa di istruzione nel breve termine, ma crea le premesse per la generazione di effetti negativi in termini di costi sociali e educativi aggiuntivi nel lungo termine.

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