La casa di Miriam si trova ad Astoria, all’estremità nord del Queens, una decina di minuti a piedi dalla fermata della metro di Steinway Street. È una New York poco battuta dai turisti, strade tutte uguali, casette tutte uguali, giardino di fronte, giardino sul retro, due piani di finestre illuminate e qualche bandiera americana.

È nella Grande mela, potrebbe essere ovunque negli States, se non fosse che quattro parallele più in là si apre un panorama mozzafiato sull’East River e sui grattacieli di Manhattan e quello no, non lo trovi da nessun’altra parte. Non c’è niente lassù, almeno nulla per cui valga la pena imbarcarsi in un viaggio di 40 minuti da midtown sulla linea Queens Boulevard. Nulla, a parte la casa di Miriam.

L’abbiamo chiamata due giorni prima: «Ciao, allora ci vediamo giovedì a pranzo?». Lei è felicissima: «Ma che bellezza, it’s wonderful! Vi faccio la gallina». Quando le proponiamo di arrivare verso l’una, lei sembra che risponda alla proposta di un matto: «L’una? Ma no piccoli miei, è prestissimo. Facciamo verso le tre e mezza». Ci guardiamo un po’ perplessi, ma non è nulla che non possa essere affrontato dopo una colazione in un diner della zona.

Una famiglia di esuli

Miriam è la cugina del mio compagno. In realtà tecnicamente è la cugina della madre, ma insomma, tutti la chiamano cugina, ed è probabilmente il legame di parentela più vicino al vero. Ha ottant’anni, dieci in più del fratello John, sono i figli della sorella del nonno del mio compagno. Zia Carmela è nata e vissuta in Istria, nell’isola di Lussino, fino a quando l’esodo del Secondo dopoguerra fece esplodere la famiglia.

La nonna raggiunse il nonno a Roma, Carmela seguì il marito ingegnere navale negli Stati Uniti. Miriam sbarcò a Staten Island che aveva 15 anni, il fratello cinque, negli anni dell’esplosione del sogno americano. Lei divenne sarta, lui si pagò l’università dove pian piano ha salito tutti i gradini fino a ottenere una cattedra di lingua inglese per stranieri alla New York University. Ora è in pensione.

Arriviamo dunque a casa di Miriam verso le tre e venti di giovedì. La villetta a schiera è come le tante altre della via, il cortiletto davanti, il patio con un dondolo e tre sedie sopra qualche gradino di scale. Ci accoglie all’ingresso, un’altra rampa conduce alla casa vera e propria, il piano di sotto è affittato per sbarcare il lunario e garantirsi una vecchiaia serena. È un salto nel passato, un salto in un film degli anni Settanta. Sul muro all’ingresso una specie di affresco che raffigura un luogo imprecisato in Italia, con tanto mare, dopotutto Miriam viene da un’isola.

C’è una bella cucina di legno, una penisola che la divide da un salone arredato all’italiana, nel mezzo uno di quei telefoni a muro bianchi, con il filo della cornetta che sarà lungo almeno cinque metri, che pensavo fosse una specie di oggetto iconico non esistente nella realtà, e invece eccolo lì, arrivato intatto scintillante da chissà quale epoca passata. Da lì parte anche un cavo nero che lo collega a una modernissima segreteria telefonica, come fosse una connessione con la modernità, perché Miriam risponde solo dopo che scatta la segreteria, perché non si sa mai chi ti può disturbare al giorno d’oggi.

Un pranzo quasi cena

A tavola ci sono quelle che sembrano le avvisaglie di un pranzo di Natale fuori stagione: mozzarelle, olive, salumi, salsiccette, sottaceti, sottoli, pane e crackers in quantità.

Scopriremo poi che sono solo gli antipasti. Miriam spiega il perché di quello strano orario d’invito, che per lei invece è normalissimo. Dopo i primi anni negli Stati Uniti, la sua generazione di immigrati ha dovuto fare i conti con un bel problema: da quelle parti il pranzo praticamente non esiste, una diet coke o un’insalata mangiati al volo, il pasto principale – dopo la colazione, s’intende – è quello serale.

Come conciliarlo con la tradizione italiana del ritrovarsi tutti intorno al tavolo la domenica, con la famiglia e gli amici? Semplice: spostiamo l’orario del pasto più in là possibile, in modo tale che si possano sfruttare le ore del giorno come si faceva al paese d’origine e ci si alzi da tavola all’ora in cui lo si dovrebbe fare da queste parti.

Miriam racconta che da sempre in casa sua è così, e così fanno pure tutti gli amici della comunità italiana che dagli anni Quaranta agli anni Sessanta si è insediata ad Astoria, quartiere ai confini della metropoli, che permetteva di sentirsi newyorkesi e di acquistare una casa dignitosa a buon mercato.

La comunità di Astoria

Gli affettati sono buoni, le mozzarelle pure. Chiediamo se si rifornisca nella locale Eataly, le cui vetrate specchiate si affacciano sul lower Manhattan, a due passi dall’avveniristico Oculus e a quattro dal One World Trade Center. Dal suo sorriso stupito capiamo di aver fatto una domanda lunare: «Quella è una roba per turisti, ma li avete visti i prezzi?» Astoria è ancora piena di grocery che vendono generi alimentari italiani, alcuni di qualità, altri meno, prodotti per il mercato locale, che chi vive qui apprezza perché non si può permettere un mutuo per fare la spesa.

Sono lustri che Miriam non va a Manhattan se non una o due volte l’anno, ne parla come fosse un’altra città. John sorride mentre sorseggia un bicchiere di vino “italiano” sconosciuto, che è l’unica cosa che tocca di quel che c’è in tavola, ha una piccola casa a Brooklyn Heights, una vista spaziale sul ponte di Brooklyn.

Si sente al cento per cento americano, è arrivato qui quando aveva cinque anni, il suo italiano è comprensibile ma limitato, ha abbandonato completamente il suo nome di battesimo, Gianni, per tutti è solo John. Un’origine in comune, due diverse traiettorie e stili di vita, lui convintamente democratico, lei repubblicana anche se di Trump non è che si fidi poi molto.

Fettuccine e gallina

Dalla grocery arrivano le fettuccine che serve con pancetta e piselli, una ciotola di parmigiano da cui attingere a piacere. Per i nostri standard sono avanti di cottura di almeno un paio di minuti, per quelli statunitensi talmente al dente dall’essere immangiabili, ovviamente sono spezzate, perché qui la pasta lunga sono gli spaghetti con le meatballs e poco altro. Se le fettuccine sono poco più che mangiabili, il piatto forte arriva subito dopo.

È la gallina che ci aveva preannunciato nella telefonata, che fa impazzire il suo compagno Chet, un ebreo newyorkese di Brooklyn che ha conosciuto in una scuola di ballo per anziani dopo che entrambi sono rimasti vedovi, e che la guarda con occhi adoranti. La “gallina” è una specie di pollo in umido condito con il suo fondo, olio e rosmarino, niente salsa gravy, nessuna aggiunta di nessun tipo: «Questo è come lo facevamo noi, come lo faceva la mia mamma Carmela, mi ricorda l’Italia».

C’è il gelato («Comprato in una gelateria italiana, eh!») e l’amaro, è l’ora di cena quando si conclude questo pranzo della domenica costruito intorno a un compromesso con la cultura del posto. Miriam è legatissima alle sue origini, la casa trabocca di foto dei parenti e di Lussino, l’isola che ha abbandonato da ragazzina, qualcuna sembra messa sul comò per l’occasione, la maggior parte dà l’idea di essere lì sui muri da anni. John lo è evidentemente meno, la sera dopo ci invita in uno dei suoi ristoranti preferiti, un thailandese di Chelsea, a quattro passi dalla High line e dal Whitney Museum di Renzo Piano.

Per Miriam Manhattan è una sorta di luogo esotico, Astoria e i suoi italo-americani sembrano quasi la comfort zone di una dimensione di vita che doveva essere la sua e invece non è stata, John ne parla come casa. Racconta degli anni Sessanta e Settanta e dell’abisso di violenza e criminalità in cui è passata la città e in cui si è trovato immerso con tutte le scarpe, delle conquiste sociali, della rinascita.

Gli domandiamo in che anni è stata riqualificata: «Requalification? Exist?». Lui sorride: «Adoro il termine requalification, è interessantissimo». «Ma esiste?». Ci fissa negli occhi per qualche secondo da dietro gli occhiali. Poi il suo sopracciglio ha un guizzo: «Da ora esiste».

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