Siamo ormai allo scoccare del decimo mese di guerra in Ucraina, gli appelli alla pace si ripetono e con loro – meno speranzosi ma comunque presenti – anche quelli per la tregua. Non mancano le voci che individuano occasioni per un almeno parziale cessate il fuoco, lo si è invocato per i mondiali di calcio, e naturalmente lo si auspica per il Natale. Non è certo una novità, nella storia dei conflitti.

Capitò anche che non fossero l’opinione pubblica o le autorità politiche, ma gli stessi soldati in armi a decidere per uno stop ai combattimenti. Correva il primo anno della Grande Guerra, quando nel Natale 1914 vennero dichiarate diverse tregue tra gli eserciti tedesco, francese e inglese, che da qualche mese lottavano aspramente, sperimentando i rigori estremi della vita di trincea.

Tregua

Il Natale era festa per tutti e portava alla memoria la nostalgia di casa e il desiderio di pace. Per un tempo tanto breve quanto intenso, i soldati imposero le proprie regole d’ingaggio. Iniziarono a chiamarsi, lanciarsi piccoli doni come giornali, tabacco e cibo, per esempio il Christmas pudding inglese, dolce della tradizione a base di frutta secca, canditi, cannella e rum, preparato di norma da tutta la famiglia assieme. Si sfidarono pacificamente a colpi di canti natalizi delle rispettive tradizioni, in qualche caso improvvisarono addirittura delle partite di calcio.

La stampa britannica e quella tedesca diedero spazio alla notizia, cosa non proprio benvista dagli altri gradi degli eserciti, proprio perché la fraternizzazione illustrava una forma di disobbedienza individuale e collettiva nei confronti dell’autorità militare. Rischiava anche di annacquare la rabbia nei confronti del nemico e di conseguenza ridurre lo spirito combattivo dei soldati. Per questa ragione tali comportamenti furono tenuti sotto stretto controllo da molti ufficiali, che cercarono anche di non farli pubblicizzare.

Al fronte

Al di là di queste iniziative, il Natale sul fronte avrebbe comunque trovato pure negli anni successivi una propria caratterizzazione proprio grazie al cibo, non solo attraverso il baratto di doni tra parti in guerra, ma anche in virtù dei regali spediti dai parenti, della comunanza tra militari e civili, capace di agevolare la scoperta di culture alimentari straniere, come anche di tenere viva la memoria della propria.

Per il Giorno del Ringraziamento, le truppe americane e canadesi in Francia potevano ricevere tacchini, un prodotto all’epoca assai costoso all’epoca. I soldati francesi apprezzavano particolarmente la carne arrosto servita talvolta a Natale o a Pasqua. Una storia particolare è quella dei “biscotti del soldato”, che divennero l’emblema del Corpo d’Armata australiano e neozelandese e contribuirono a ricordare l’importanza delle ricette locali per le truppe costrette a combattere così lontano da casa. Questi biscotti, a base di fiocchi d’avena, cocco e golden syrup, non contenevano uova perché dovevano sopportare un viaggio in nave di diverse settimane dall’Oceania fino all’Europa.

La mitologia bellica li descriveva come amorevolmente preparati dalle mogli e averli a disposizione si disse avesse reso meno bruciante una delle più amare sconfitte degli Alleati, conclusa con la ritirata dalla penisola di Gallipoli, proprio nei giorni natalizi.

Quanto alle truppe italiane, le testimonianze relative alle occasioni per rendere il Natale più gustoso e degno di celebrazione sono ricorrenti nei diari dei combattenti, che sovente riportano ringraziamenti a mogli e genitori per i generosi doni inviati da casa e raccontano come quei regali venissero condivisi con i compagni d’armi, talvolta proprio per celebrare le festività religiose. Ogni occasione poi era buona per trovare modo di arricchire il rancio, immaginarsi a Natale.

Paolo Caccia Dominioni il 24 dicembre 1917 trovò chissà come una buona scorta di falso champagne a Bassano e se lo caricò in spa

lla per condividerlo con i commilitoni. Oltre alle leccornie e alle razioni speciali, anche gli alcolici erano un elemento importante per celebrare la festa, capaci con le loro note proprietà di anestetizzare almeno in parte la grama vita di trincea.  

Nei campi e nelle retrovie

Il diario di Caterina Arrigoni – che non si trovava poi troppo lontano da Caccia Dominioni in quello stesso Natale 1917 – racconta delle difficoltà di santificare la festa nelle zone occupate da truppe austriache e tedesche dopo la rotta di Caporetto.

Arrigoni aveva scelto di restare con alcuni della propria famiglia a Valdobbiadene e descrisse un 25 dicembre “giorno malinconico tra tutti”. “Indicibilmente tristi”, lei e i genitori furono costretti ad ascoltare i canti dei nemici, che avevano requisito e macellato un maialino e se la erano spassata tutta la notte. A Caterina non era andata neppure troppo male, perché grazie alla solidarietà tra civili si era riusciti a preparare un pranzo natalizio degno di questo nome, anche se privo di tanti ingredienti che fino a soli due mesi prima sarebbe stato folle pensare di non avere a disposizione per commemorare Gesù bambino.

Prigioniero in Germania, sempre nel 1917 Giuseppe Giuriati si dovette accontentare di una doppia razione di pane distribuita il giorno della Vigilia, salvo rendersi conto che l’abbondanza era motivata dal semplice fatto che l’indomani il pane non sarebbe stato consegnato. Non gli rimase che ripercorrere con malinconia e tristezza le memorie degli anni precedenti. Magra consolazione, annotò sul proprio diario che il nemico gli aveva consentito di ascoltare la messa.

Giovanni Marchio era rimasto prigioniero in Russia anche dopo la fine del conflitto, perché non era affatto cosa semplice (né urgente per i russi) organizzarne il rimpatrio. Le memorie di Marchio rivelano una vera e propria ossessione per il cibo, caratterizzata dalla sofferenza per il disordinato susseguirsi di momenti di inedia e sazietà.

Un esempio di abbondanza lo visse a Vladivostok, dove il console inglese regalò qualche rublo ai prigionieri, che stavano vivendo un periodo di penuria. Siccome poi si stava celebrando il Natale ortodosso del 1919, arrivarono pure dei doni: pane, zucchero e tè a profusione. Marchio non fu capace di dare retta a quanto razionalità avrebbe suggerito: “M’è venuta una pancia come un tamburo, lo sapevo, ma come tratenersi con quella fame trascurata”. La consapevolezza del rischio non placò la fame e la sete, tanto che il prigioniero si ammalò e il suo stomaco rassomigliava ormai a una colonna di cemento, scrisse.

La storia della Prima guerra mondiale ci racconta insomma che il Natale è occasione per mangiare di più o meglio, per vari motivi: interruzione dei combattimenti, generosità di qualcuno, maggiore attenzione alla condivisione. Ma di tutte queste testimonianze il protagonista vero non è il cibo, gli attori principali sono altri: malinconia, tristezza, dolori. La guerra non lascia spazio al buon appetito, al massimo può consentire una fugace anestesia.

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