Un detenuto disse al suo compagno di cella: «La vedi quella gobba? Guardala bene perché è piena di omicidi». La televisione era accesa, sullo schermo apparve l’uomo politico più famoso d’Italia che per sette volte era stato capo del governo e per ventuno ministro della Repubblica. Poi un altro raccontò: «Noi lo sapevamo chi era davvero, girava la voce che era punciutu».

Punciutu, punto sul polpastrello del dito indice della mano destra con un ago, o con la spina di arancio amaro o forse con una spilla d’oro come usavano i boss più megalomani delle province interne, comunque passato anche lui dal rito d’iniziazione con l’immagine della Madonna dell’Annunziata che prende fuoco e il sangue che sgorga mentre stregato recita la magica formula (“Come carta ti brucio, come santa ti adoro, che un giorno possa bruciare la mia carne se mai tradirò la Cosa nostra”) per diventare mafioso.

L’Entità

Giulio Andreotti mafioso. Palermo, fine inverno del 1993. Appena una decina di anni prima, e dopo un vorticoso incrocio di silenzi e di sguardi con il giudice Giovanni Falcone, il pentito Tommaso Buscetta si era limitato ad alludere a un’impalpabile “Entità” che suggeriva e proteggeva, che metteva sempre le cose a posto in Sicilia e a Roma. Ma con le stragi di Capaci e di via D’Amelio, le bombe, era cambiato tutto. E quella figura avvolta perennemente nel mistero aveva preso quasi un nome.

Per alcuni ero “lo zio”, per altri “lo zio Giulio”. Era sempre lui. Così il 4 marzo del 1993, un giovedì, in una stanza al secondo piano dell’imponente palazzo di giustizia di Palermo ci fu il primo atto di quello che sarebbe stato definito Il processo del secolo.

L’iscrizione di Giulio Andreotti nel registro degli indagati “per i reati di cui agli articoli 110 e 416 c.p. e agli articoli 110 e 416 bis c.p.”, concorso esterno in associazione semplice e concorso esterno in associazione mafiosa. Ventitré giorni dopo, il 27 marzo alle undici del mattino in punto, da Palermo fu inoltrata all’ufficio di presidenza del Senato una richiesta di autorizzazione a procedere di 246 pagine firmata dal procuratore capo della repubblica Gian Carlo Caselli e dai sostituti Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato.

Il 13 maggio la speciale giunta di palazzo Madama concesse l’autorizzazione «escludendo la sussistenza di fumus persecutionis oggettivo e soggettivo nei confronti di Giulio Andreotti», il 21 maggio la procura di Palermo modificò con un tratto di penna il capo d’imputazione: non più concorso in associazione mafiosa ma associazione mafiosa pura.

L’Italia divisa in tre

archivio storico Giulio Andreotti

A quel punto l’Italia si è divisa in due e pure in tre. Quasi mafioso, mafioso, mafiosissimo. Quasi innocente, innocente, innocentissimo. Finalmente trascinato davanti a un tribunale per le sue gravi colpe, vittima di una grande macchinazione nazionale e internazionale, invischiato fino al collo nelle brutalità della mafia siciliana, corrotto e corruttore, incastrato da diaboliche forze e probabilmente anche da una fazione del governo americano che non vedeva l’ora di levarselo di torno dopo la caduta del Muro di Berlino. Particolarmente sagace, la battuta sempre pungente, una straordinaria capacità di sintetizzare pensieri complessi in una sola frase, quando le carte dei suoi insidiosi rapporti con la mafia vengono scoperte lui muove lentamente la testa incassata fra le spalle ingobbite, piega le labbra sottili e sibila: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito di tutto».

Cos’è l’atto d’accusa dei magistrati di Palermo? Un processo a un potere incrollabile? Un processo alla Storia? Un processo all’uomo - nato a Roma il 14 gennaio del 1919, democristiano, giornalista, scrittore, a ventotto anni già sottosegretario nel governo di Alcide De Gasperi, delfino di Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare - o al sistema?

I suoi peccati

Ciò che è sempre stato oscuro, viene spiegato in realtà con una semplicità che sconvolge. Giulio Andreotti, uno che dalla fine della Seconda Guerra mondiale si è seduto al tavolo con i padroni del mondo, con capi di stato come Eisenhover e De Gaulle, Mitterand e Reagan, Thatcher e Gorbaciov, contemporanemente ha intrattenuto rapporti criminali con don Stefano Bontate e don Gaetano Badalamenti e persino con Totò Riina, ha “aggiustato” procedimenti in Cassazione, ha ordinato omicidi o comunque non ha fatto nulla per evitarli, ha garantito e si è garantito l’appoggio di Salvo Lima, il console in Sicilia che con Cosa Nostra era in un solo abbraccio.

I suoi misfatti e i suoi peccati, giuridicamente parlando: «Avere messo a disposizione dell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra, per la tutela degli interessi e per il raggiungimento degli scopi criminali della stessa, l’influenza e il potere derivanti dalla sua posizione di esponente di vertice di una corrente politica, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività; partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione medesima». Giulio Andreotti mafioso.

Più che un’inchiesta, se pur clamorosa, simboleggia l’abbattimento di una struttura statuale messa in piedi dal 1945. Giulio Andreotti incarna la Democrazia Cristiana che ha governato per quasi quarant’anni l’Italia (da non confondere con ciò che sarebbe accaduto qualche tempo dopo con le indagini sui legami fra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, forse riciclatore di denaro sporco, forse a conoscenza di segreti sulle stragi siciliane del 1992 ma sicuramente non “uomo stato” come Andreotti), è l’occulto della Prima Repubblica.

Le trame e i segreti

archivio storico Giulio Andreotti

Le trame del Sifar - il servizio segreto militare all’epoca dei dossier del generale Giovanni De Lorenzo - il crack Montedison con protagonista l’imprenditore Nino Rovelli, il complotto contro il direttore della Banca d’Italia Mario Sarcinelli e il presidente Paolo Baffi, il patto con il banchiere della mafia Michele Sindona e l’altro con il banchiere di Dio Roberto Calvi, la loggia P2 di Licio Gelli, le scorrerie del comandante generale della guardia di finanza Raffaele Giudice in combutta con i petrolieri, lo spericolato intreccio con i “palazzinari" romani Caltagirone (famosa la frase pronunciata dal capostipite dei Caltagirone, Gaetano, al ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti: «A Fra’ che te serve?»), l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, le ombre sul delitto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sfiorato dai più grandi scandali ma mai affondato, nemmeno graffiato.

Eugenio Scalfari, in un celebre editoriale su Repubblica lo battezza Belzebù, descrivendolo «come l’incrocio accuratamente dosato d’un mandarino cinese e d’un cardinale settecentesco». E poi la mafia siciliana. Alla fine sono i padrini a farlo sprofondare e ad imprigionarlo in un processo infinito che si celebra nel bunker di Palermo, proprio nell’aula dove qualche anno prima erano rinchiusi i capi della Cosa Nostra.

Il delitto Lima

Le indagini su Andreotti prendono avvio il 12 marzo del 1992. È il giorno dell’assassinio di Salvo Lima, il capo della corrente andreottiana siciliana che, come aveva ricordato il prefetto generale Dalla Chiesa al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini nella primavera del 1982 prima del suo sbarco a Palermo, «era la famiglia politica più inquinata del luogo».

Lima, europarlamentare e già sottosegretario alle Finanze, è un capobastone della Democrazia cristiana, è legato ai potentissimi Nino e Ignazio Salvo, proprietari terrieri, interessi nel turismo e nella commercializzazione del vino e soprattutto esattori.

Nel resto d’Italia l’aggio concesso per le somme riscosse è poco superiore al 3 per cento, in Sicilia sfiora il 10 per cento. I Salvo sono mafiosi, uomini d’onore della famiglia trapanese di Salemi. Loro e Salvo Lima sono i re dell’isola fino a quando i Corleonesi di Totò Riina non conquistano Cosa Nostra, vincono ma si ritrovano comunque all’ergastolo.

Quello di Lima è il primo delitto eccellente del 1992. I sicari lo rincorrono sui vialetti di Mondello, il mare di Palermo. E lo uccidono sparandogli alle spalle, come si fa con i traditori. Il movente: «Non avere garantito il buon esito del maxi processo». Il 30 gennaio precedente la Cassazione, contro ogni previsione, ha condannato tutti i grandi boss siciliani. È la prima volta, una sentenza storica.

Ed è la prima volta che a presiedere la prima sezione della suprema corte non c’è Corrado Carnevale, il giudice conosciuto come “l’ammazzasentenze”, sbalzato da quella poltrona da una rotazione di magistrati voluta da Giovanni Falcone e dal ministro della Giustizia Claudio Martelli. Meno di due mesi dopo il verdetto della mafia, l’esecuzione di Mondello.

La corsa al Quirinale

È un omicidio che destabilizza l’Italia. Punisce Salvo Lima ma ferma anche la corsa al Quirinale di Giulio Andreotti. Le elezioni del nuovo capo dello stato sono previste in primavera, lui è uno dei candidati favoriti. «Da questo momento può succedere di tutto», dice Giovanni Falcone la sera stessa del delitto. Succede che Andreotti è definitivamente fuori gioco, non diventerà mai Presidente della Repubblica.

Le indagini intorno all’omicidio Lima scavano sui summit fra “zio Giulio” e il capomafia palermitano Stefano Bontate dopo la morte del presidente della regione Piersanti Mattarella, sul condizionamento di alcuni processi ai boss, sulla sua vicinanza con il capo della loggia P2, sul suo coinvolgimento nell’uccisione del direttore della rivista OP Mino Pecorelli legata alla “carte segrete” di Aldo Moro, sui suoi viaggi non registrati fra Palermo e la Sicilia per incontrare personaggi gravitanti nell’ambiente criminale.

È il procedimento penale numero 1491/93. Migliaia di fogli raccolti in 9 volumi e 26 capitoli, i testimoni citati dall’accusa 400, i pentiti all’inizio sono 27 e alla fine 41.

L’enigmatico pentito

Ci sono quelli cosiddetti di serie A come Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia o Angelo Siino e Francesco Di Carlo, c’è qualche pugliese e qualche calabrese, c’è il messinese Orlando Galati Mamertino (quello della gobba piena di omicidi), c’è Leonardo Messina da Caltanissetta (quell’altro che aveva sentito dire che era “punciutu”), un paio sono della banda della Magliana. Poi ne salta fuori uno che fa saltare il banco. È Balduccio Di Maggio, ex autista di Totò Riina, il mafioso che porta - e ancora oggi, dopo trent’anni, non sappiamo come - i carabinieri del Ros al capo dei capi latitante da un quarto di secolo.

Ufficialmente Di Maggio viene catturato in Piemonte l’8 gennaio (ma il gelataio indovino Salvatore Baiardo, che ha annunciato la cattura di Matteo Messina Denaro, dirà che sapeva del suo pentimento già dal dicembre 1992), poi rivela una ventina di ammazzatine ai sostituti procuratori palermitani Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi, poi ancora si presenta da Gian Carlo Caselli con una fantastica favola. Quella del bacio.

Ricorda che un giorno, tra le 14 e le 16 del 21 settembre 1987, accompagnò Totò Riina nella lussuosa casa palermitana di Ignazio Salvo “alla Statua”, in fondo a viale Libertà, dove trovò ad attenderlo Salvo Lima, lo stesso Ignazio Salvo e l’ospite d’onore: Giulio Andreotti. Testuale Di Maggio: «Il Riina salutò con un bacio tutte e tre le persone».

Il bacio, per le immaginabili suggestioni suscitate nell’opinione pubblica, fuori dall’aula di giustizia è diventato il cuore del processo Andreotti. Mai dimostrato né dimostrabile (Salvo Lima era stato ucciso a marzo del 1992, Ignazio Salvo appena sei mesi dopo), negato naturalmente da Andreotti, ha rappresentato una sorta di cavallo di troia nella corposa documentazione accusatoria sullo “zio Giulio”.

Con il senno del poi potremmo dire - anche se qualcuno aveva subito intuito il pericolo di una testimonianza così iperbolica e maliziosa - che l’enigmatico Balduccio Di Maggio dell’arresto di Riina aveva ancora una volta fatto il suo mestiere coplentando l’opera con Andreotti. Verità e menzogne, abilmente mischiate.

Di quel bacio, alla fine, c’è rimasto solo il geniale pensiero dell’attore palermitano Ciccio Ingrassia: «Io non so se Andreotti e Riina si siano mai incontrati, ma se si sono incontrati di sicuro si sono baciati».

Mai visti da vicino

Il processo si apre la mattina del 26 settembre nella grande aula accanto all’Ucciardone. I giudici sono quelli della quinta sezione penale del Tribunale di Palermo, presidente Francesco Ingargiola, a latere Salvatore Barresi e Vincenzina Massa.

Per la pubblica accusa Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato. Il collegio difensivo è composto da Franco Coppi, Gioacchino Sbacchi e da una giovanissima Giulia Bongiorno. Poi si aggiungerà anche l’avvocato Odaordo Ascari. L’aula è stracolma, centinaia i giornalisti provenienti da tutto il mondo, accreditata anche una troupe giapponese.

Alla vigilia del dibattimento sugli scaffali delle librerie è in bella mostra un volume: «Cosa Loro, mai visti da vicino». Giulio Andreotti ricostruisce per la Rizzoli i suoi ultimi tre anni e mezzo di vita, dal giorno in cui il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere contro di lui.

Scrive: «In queste pagine non si troveranno invettive o generiche lamentele, ma solo descrizioni puntuali di un impianto accusatorio che io ritengo infondato e perverso». E ancora: «Era stato presentato all’inizio del preannuncio di schiaccianti dimostrazioni di mie responsabilità mafiose; ora ripiega sulla singolare tesi di un reato collettivo, compiuto dalla Democrazia Cristiana siciliana o da una parte di essa; attraverso uno scambio di favori fra politica e mafia del quale non si è avuta la possibilità di dimostrare contro di me il benché minimo esempio di concretizzazione».

Dopo duecentocinquanta udienze il dibattimento di primo grado viene formalmente chiuso il 19 gennaio. Comincia la requisitoria dei pubblici ministeri, ventitré sedute: quindici gli anni chiesti per Andreotti.

La difesa, dopo ventiquattro sedute, vuole l’imputato pienamente assolto. Fra i testi a discolpa l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Xavier Perez De Cuellar, gli ex ambasciatori Usa a Roma Maxwell Rabb e Peter Secchia, l’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, l’ex capo dei servizi segreti Riccardo Malpica, tre ex capi della polizia. E, colpo di scena, anche il boss Gaetano Badalamenti. Perché don Tano, sul delitto Pecorelli e su quello Dalla Chiesa, ha smentito Buscetta.

L’incubo Buscetta

Il primo pentito di mafia dell’era moderna è un incubo per Andreotti. Ha credibilità, carisma, ha la certificazione doc del giudice Falcone. Racconterà a proposito del suo vecchio amico Badalamenti: «Mi disse che un giorno si era incontrato con il presidente a Roma e che si era personalmente congratulato con lui, dicendogli che "di uomini come lui (Badalamenti, ndr) ce ne voleva uno per ogni strada di ogni città italiana”..».

Dopo undici giorni di camera di consiglio, il 23 ottobre 1999 il tribunale di Palermo assolve Giulio Andreotti “perché il fatto non sussiste”. Mancanza di prove sufficienti, incongruenze, dichiarazioni confuse e contraddittorie. Il contesto che dipingono i giudici intorno all’imputato eccellente però è maleodorante. Lui, che non aveva mai mostrato un gesto di gioia o un moto d’ira, per la prima volta ha un brivido, quasi trema e dice: «La partita è chiusa».

Nel frattempo Giulio Andreotti viene assolto a Perugia anche per l’omicidio di Mino Pecorelli, poi sarà condannato a 24 anni in appello e definitivamente assolto in Cassazione. Nel frattempo il presidente della Suprema Corte Corrado Carnevale viene assolto a Palermo dall’accusa di avere “aggiustato” il maxi processo, condannato a 6 anni in secondo grado e poi anche lui assolto dalla Cassazione. Si arriva così all’appello per Giulio Andreotti. E il 2 maggio del 2003 la sentenza rimescola le carte. In parziale riforma del primo verdetto i giudici affermano che, fino alla primavera del 1980, Giulio Andreotti era colluso con Cosa Nostra.

E che, solo dopo l’uccisione del presidente della regione Piersanti Mattarella, si è allontanato dall’organizzazione criminale. Condannato e prescritto per l’associazione a delinquere semplice fino al 1980, assolto sia pur in forma dubitativa per il dopo. Due epoche di mafia, due sentenze. Confermate dalla Cassazione il 28 dicembre del 2004.

Il Divo

Ma il processo contro l’uomo politico italiano più famoso dalla fine della Seconda Guerra mondiale in realtà non è mai finito. Continua ancora oggi, a trent’anni dall’inizio dell’indagine. Intrecciandosi con tutti gli altri “processi politici” celebrati a Palermo negli anni successivi, incrocio rovente della giustizia italiana, campo di battaglia, arena. Il dibattito è sempre aperto soprattutto su un punto: bisognava processarlo e condannarlo politicamente e non trascinarlo in un’aula di tribunale. Sullo “zio Giulio” viene girato nel 2008 anche un film capolavoro, Il Divo, regista il premio Oscar Paolo Sorrentino. E poi una montagna di libri. Ne cito solo alcuni.

Quello dell’avvocato Giulia Bongiorno (Nient’altro che la verità, Rizzoli 2005), quello del sociologo Pino Arlacchi (Il processo, Giulio Andreotti sotto accusa a Palermo, Rizzoli 1995), quello di Alexander Stille (Andreotti, Mondadori 1995), quello di Gian Carlo Caselli e di Guido Lo Forte (La verità sul processo Andreotti, Laterza 2018) e ancora tanti altri.

Sempre nel 1995 la Pironti Editore pubblica un tomo di 973 pagine che riporta integralmente la memoria dei procuratori di Palermo, il titolo fa discutere: La vera storia d’Italia. L’anno dopo, un pamphlet firmato dallo storico Salvatore Lupo (Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Donzelli) dà più ampio respiro alla vicenda: «La vera storia d’Italia passa anche per l’aula del processo Andreotti, ma – per disgrazia o per fortuna – non si ferma lì».

Giulio Andreotti muore a Roma il 6 maggio del 2013 all’età di novantaquattro anni.

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