Le case-famiglia sono strutture protette che accolgono persone bisognose di sostegno psicologico e anche materiale, persone che, solitamente, hanno alle spalle storie miserabili di violenze, umiliazioni o anche solo abbandono, donne di ogni età vittime di persecuzioni a opera del partner o di un padre-padrone, schiave sottratte ai loro sfruttatori e aguzzini, anziani maltrattati da figli tossicodipendenti, ma soprattutto bambini.

Lo stato ha purtroppo deciso di girarsi dall’altra parte e rimettere, di fatto, l’organizzazione e la gestione di queste strutture a privati, poi compensati con denaro pubblico. Il più delle volte si tratta di nobili onlus e associazioni di volontariato e di ordini religiosi, ma talvolta anche di soggetti che, al di là dell’apparenza di facciata, hanno deciso di sfruttare questo business del dolore: e non solo economicamente.

I bambini che finiscono in tali comunità, quasi sempre perché non hanno più adulti di riferimento, spesso tendono a replicare i comportamenti sessualizzati o antisociali che hanno assimilato in famiglia; tuttavia, se riescono a instaurare un legame di fiducia con il personale che li assiste, rivelano gli abusi subiti. Si tratta però, in generale, di fatti difficilmente verificabili, in primo luogo perché sono avvenuti nel passato, risultando dunque esauriti, e in secondo luogo perché chi racconta può risultare poco attendibile: potrebbe aver sovrapposto o enfatizzato qualche ricordo, potrebbe star raccontando una verità parziale, o una menzogna, sia pure inconsapevolmente a causa di un ritardo mentale o disturbo psichico. Sono davvero pochi i casi in cui ho tratto risultati giudiziari da confidenze svelate nel contesto della casa-famiglia.

La storia di Luca

Uno di questi, è quello di Luca. Siamo a Napoli. Luca è il maggiore di due fratelli, entrambi collocati in casa-famiglia a causa dell’incapacità dei loro genitori di prendersene cura. Depressione la madre, alcolismo il padre, in una spirale di violenza che ha portato i servizi sociali a intervenire tempestivamente. Luca è timido, ha sedici anni compiuti da poco, una lieve balbuzie e difficoltà relazionali.

«Sai perché ti trovi qui?», gli chiede Loredana, la consulente psicologa che mi assiste nell’audizione, capelli e occhi neri, minuta ma determinata.

«Sto qua per quello che mi è successo, per la persona che mi ha fatto del male».

Siede sulla sedia con le mani ficcate nelle tasche del bomber nero, visibilmente emozionato, con la testa abbassata, i capelli neri scompigliati, gli occhiali spessi e i brufoli. È mingherlino ma alto. Ci sorride, guardandoci alternamente; e parla sottovoce. Capisco che tra noi e lui si sta instaurando un clima di fiducia. Si sta aprendo, ed è positivo.

«Sì, hai ragione, è proprio per questo».

Un giorno la comunità di Luca è stata avvisata dalla scuola delle sue ripetute assenze. Ripreso dalla responsabile, il ragazzo si è giustificato raccontando di aver trascorso la mattinata con Angelo, un uomo di sessant’anni che Luca aveva conosciuto qualche anno prima, quando era ospite di un’altra comunità gestita dalla cooperativa di cui Angelo era rappresentante. Fra i due è nata una relazione intima, coltivata anche in occasione dei rientri di Luca in famiglia. Una relazione ossessiva, soffocante, plagiante.

«La prima volta è successo quando stavo ancora nella sua comunità. Poi lui è venuto a cercarmi fuori scuola. Mi sorrideva, mi prendeva per mano, mi portava le caramelle alla Cola che mi piacciono tanto. Mi diceva vieni con me e andavamo in un posto… Cercava sempre una camera vuota per fare le cose con me».

Angelo si appartava con Luca nelle stanze vuote della comunità. Se aveva a disposizione un televisore, mostrava al ragazzo video porno omosessuali.

«Lui mi diceva che era per amore. Mi diceva: sei speciale. Diceva che era bello, invece era brutto, molto brutto. Mi diceva che dovevo stare con lui perché ero l’unico che lo rendeva felice, che era una specie di prova per fargli capire la mia fedeltà».

Angelo chiedeva a Luca di non raccontare «perché altrimenti la gente pensava che era malato. Mi diceva che nessuno avrebbe mai accettato il nostro amore, perché nessuno l’avrebbe capito: era troppo speciale».

Un giorno, Luca, stanco delle continue violenze e gravato dal peso del segreto, ha trovato il coraggio di dire tutto alla responsabile della comunità. «Lei mi chiedeva dove ero stato quando avevo fatto filone e io le ho raccontato la verità. Lei mi ha dato coraggio. Ce lo avevo dentro ed è meglio che l’ho cacciato fuori».

Al termine dell’ascolto mi intrattengo a parlare con Loredana. Ci siamo conosciute qualche giorno dopo l’apertura del nuovo Palazzo di Giustizia, quando si è presentata in Procura per offrire la propria collaborazione come esperta. Siamo giovani e stiamo crescendo insieme.

Pur ritenendo attendibile il racconto di Luca, Loredana mi esprime le sue perplessità sulla capacità di testimoniare del ragazzo, per via del suo deficit cognitivo: è di fondamentale importanza trovare dei riscontri, ma in che modo?

Luca ci ha fatto il nome di una ragazza che aiuta in cucina nella comunità gestita da Angelo. Decido di farla sentire dalla polizia. Isabella, pur non avendo conoscenza diretta dei fatti denunciati, conferma in effetti l’esistenza di un rapporto stretto, quasi morboso tra i due, aggiungendo che dopo il trasferimento di Luca, Angelo si è legato a un altro giovane, di origini albanesi, Borian, da poco divenuto maggiorenne. Lo convoco, pensando che possa essere un’altra vittima dell’indagato.

L’indagine

Borian entra nel mio ufficio accompagnato da Annamaria, l’ispettrice della Squadra Mobile che sta coordinando l’indagine. È un ragazzo bello, intelligente, volenteroso, pienamente capace di intendere e di volere. E di mentire.

Parla fluentemente l’italiano, con un leggero accento straniero.

«Sono un po’ emozionato, non so perché mi trovo qui».

È entrato in Italia a quindici anni fuggendo dalla povertà, ed è stato collocato in comunità in quanto, all’epoca, minore non accompagnato. Così ha conosciuto Angelo: in lui ha trovato il padre che non ha mai avuto. «Il signor Angelo è sempre stato gentile con me. Mi ha dato speranza quando non ne avevo».

Ci racconta che la mattina aiutava in comunità a fare le pulizie e piccoli lavori in cambio di una paghetta. Dalle cinque alle nove frequentava la scuola serale. Dopo la maturità è rimasto in struttura come collaboratore e autista personale di Angelo. Con orgoglio ci spiega di averne conquistato la stima e la fiducia, al punto da essere nominato legale rappresentante di una nuova società, destinata a gestire altre strutture di accoglienza per minori.

Alla mia domanda diretta, Borian, arrossendo, nega di avere una relazione sessuale con Angelo.

«Non so di costa stia parlando, dottoressa. Il mio rapporto col signor Angelo è solo di lavoro».

Si irrigidisce, contrae la mandibola, inizia a farci domande sulle ragioni della sua convocazione. Gli spieghiamo che è interesse dell’ufficio sapere come sta e come è stato trattato nelle comunità in cui ha vissuto.

«Perché mi trovo qui? Ho fatto qualcosa di male?»

Gli chiariamo che il suo ruolo è quello di persona informata dei fatti, di testimone, insomma. Poi gli domando, ancora una volta, se ha ricevuto proposte di altra natura da Angelo, se lui o qualcun altro gli ha mai chiesto di avere rapporti sessuali, se qualcuno ha mai provato a toccarlo, se è a conoscenza di molestie subite da altri ragazzi in casa-famiglia.

No, no, no, no.

Al termine dell’audizione gli sequestro il cellulare e lo consegno a Diego, consulente tecnico informatico, perché ne scandagli il contenuto. Gli ho affidato diversi incarichi e ormai siamo in confidenza quanto basta perché mi anticipi via WhatsApp, nel bel mezzo di una cena, le prove inequivocabili dei rapporti tutt’altro che professionali fra Borian e Angelo.

Non sono mai prove facili da visionare, e devo lottare con tutta me stessa per non far prevalere rabbia e disgusto. Tuttavia, ne ho viste di peggio quando a Palermo, sede distrettuale, mi occupavo anche di pedopornografia.

Il consulente informatico incaricato di estrapolare i contenuti illeciti dal materiale in sequestro mi consegnò la relazione con le lacrime agli occhi pregandomi di non chiamarlo più.

Angelo finisce agli arresti domiciliari e trasmetto gli atti di indagine alla procura dei minori, che sapranno come agire riguardo alle comunità da lui gestite.

È trascorso qualche mese dal mio trasferimento dalla Procura di Napoli Nord a quella di Velletri. Fabio, il collega che ha seguito il dibattimento, mi chiama per condividerne l’esito: Angelo è stato condannato a nove anni di reclusione. Sorrido: la sua rete di violenza e perversione è stata smontata. Luca e Borian sono finalmente al sicuro.

Soddisfatta, compio il mio piccolo rituale: un messaggio lo invio al procuratore, uno a Loredana, uno a Diego, uno ad Annamaria.


Il testo è un estratto dal libro Olivia e le altre, la normalità del male nel diario di una magistrata, Zolfo editore, scritto dal pubblico ministero, Diana Russo

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