Lo scorso fine settimana sono andato a farmi un giro a Eos, la fiera di Verona denominata “fiera internazionale della caccia, della pesca, del tiro sportivo, della nautica e dell’outdoor”, e che era di fatto una fiera delle armi. Delle polemiche e delle contestazioni legate alla manifestazione avevamo già parlato la settimana scorsa; ma una cosa è ragionare anche criticamente di una manifestazione sulla base di un programma e dell’analisi del curriculum degli espositori, una cosa è essere immersi per tre giorni in una falloforia di pistole e fucili, carabine e doppiette.

In tre giorni Eos ha fatto cinquantamila presenze, trasformando anche la città. Già sull’autobus per arrivare alla fiera sono tutti entusiasti; la ragazza che mi vede spaesato nella tribù con le giacche mimetiche mi aiuta e mi dice di scendere alla sua fermata, a via Roveggia: lavora al poligono di Verona, fa tiro sportivo, è un’appassionata di armi, e mi dà un quadro approssimato su quanto sia grande la popolazione che a Verona maneggia armi. Al poligono ci sono quasi duemila iscritti, quattrocento frequentano regolarmente – non poco tenendo conto che ce ne sono altri sparsi per tutta la provincia: Bardolino, Caprino Veronese, Cerea, Soave, Negrar e Zevio.

I dati sono più o meno in linea con il resto d’Italia: i poligoni sparsi tra cento province sono circa 440. Non sappiamo precisamente quanti siano i possessori di armi in Italia, i dati della polizia di stato ci danno un’indicazione di circa un milione e duecentomila, con due milioni di armi (1,5 a testa), ma molte altre indagini attestano che sia un numero molto sottostimato: in un sondaggio Censis del 2020, il 9,6 per cento degli intervistati dichiarava di avere un’arma in casa, che corrisponde a circa sei milioni di persone.

«LA GENTE MIGLIORE»

Se le armi sono così diffuse nelle case, è vero anche che in Italia la cultura delle armi è sempre sembrata appartenere a minoranze, spesso di destra, un po’ esaltate se non paranoiche. Non è così negli ultimi anni: sempre meno di rado i politici si fanno fotografare accanto a un mitra o una pistola, e l’episodio di Capodanno che ha coinvolto il deputato Pozzolo (indagato) e il sottosegretario Delmastro (testimone) ha suscitato un’indignazione che è durata il tempo di raccogliere il bossolo.

Del resto l’atmosfera che si respira nelle lunghe file di Eos è di eccitazione, di rivincita, di sdoganamento di una cultura che sembrava di nicchia. Il 95 per cento sono maschi, si lamentano che i metal detector previsti all’entrata siano così pochi, indossano giubbini da caccia, felpe con stencil di armi, ma sembrano comunque in gita domenicale. Ha un’aria conviviale anche Patrizio Carotta, l’amministratore delegato di Eos, che durante l’inaugurazione si scusa per le file attribuendone la colpa a non meglio precisate «minacce di infiltrazione di gruppi antagonisti»; così come l’assessore della regione Veneto a territorio, cultura, sicurezza, flussi migratori, caccia e pesca Cristiano Corazzari che dedica «un pensiero particolare alle forze dell’ordine che si trovano a intervenire anche dove in un contesto di civiltà non ce ne sarebbe bisogno».

Non si capisce bene a cosa si stia riferendo. Alle misure suppletive di sicurezza che la questura ha dovuto applicare quest’anno per prevenire incidenti con armi da fuoco? L’assessore sembra convinto del contrario: queste misure non servirebbero.

«Questo mondo ha una caratteristica: sono persone abituate a rispettare le regole». Anzi, «la gente che è qui dentro è la migliore perché è gente che rispetta le regole». È una sorta di investitura morale di una cittadinanza premium, capace più di altri di autoregolarsi. Sono soprattutto i cacciatori quelli a cui sta parlando, Corazzari sa che Eos è una sorta di pride della caccia, e che questo mondo è un riferimento stabile per la Lega e per le destre che dentro Eos fanno anche esplicitamente campagna elettorale distribuendo gadget; a Pontida lo scorso settembre Matteo Salvini citava i cacciatori come i tutori dell’ambiente per l’emergenza climatica. Ma nonostante la retorica delle armi sia ovunque, c’è stato un calo consistente di cacciatori negli ultimi anni – da più di 700mila e mezzo milione. Anche gli incidenti sono calati (meno, in proporzione): nella stagione 2023-24 sono stati 55. E cinque morti. Ma non è mai una notizia.

ARMI & BAMBINI

Sembra proprio la preoccupazione su come trasmettere la passione di sparare a tenere insieme amatori ed armatori. Tutti parlano dei bambini, dei giovani, dell’andare a caccia in famiglia, dell’insegnare ai ragazzi la pratica sportiva, venatoria, a usare le armi. In uno dei suoi bollettini stampa, Eos riprende le parole di Federica Gozza, marketing di Baschieri & Pellagri: «Sono davvero molto contenta perché qui in Eos ho lavorato tanto e il 60% di quanti ho incontrato è under 30». Girando tra gli stand, ero colpito proprio da queste facce felici: il responsabile commerciale di Benelli fatica a mantenere un ruolo solo professionale davanti alla vetrina da gioielleria delle armi della sua azienda: «È un mondo speciale. Le nuove generazioni rischiano di appassionarsi meno, e questo invece è un segnale in controtendenza». Gli sta un po’ stretto, ma soprattutto gli sembra inutile, il codice etico che il comune di Verona ha contribuito a scrivere insieme all’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa e al Movimento Nonviolento e dalla Rete italiana Pace e Disarmo. È già un’eccezione che ne sia a conoscenza, la maggior parte di espositori e visitatori a cui chiedo lo ignora, come abbastanza previsto prima dell’apertura della fiera: il codice si è rivelato un’operazione di washing, non soltanto inefficace ma controproducente, perché ha messo il Comune nella spiacevole posizione di essere usato dalla comunicazione di Eos e non poterne prendere le distanze.

Ma il tema armi & minori non preoccupa veramente nessuno, anzi. «È dai tempi dei tempi che mio nonno portava a caccia mio papà e mio papà me». Ed è la stessa cosa che mi dicono i genitori, i nonni, gli zii che incontro con bambini di sei, dieci, dodici anni al seguito. Non si tratta nemmeno di farli appassionare alla caccia, alle armi, a sparare: sono già appassionati. Non c’è bisogno di toccare: guardano a questa teoria infinita di armi di ultima generazione come a un paradiso non proibito; più che una fiera di pistoleri del Texas una sorta di Disneyworld.

Quando li fermo, sono contenti di rivelarmi ciò che li unisce come famiglia. I padri lasciano parlare i figli, i figli cercano solo il loro sguardo di approvazione. Un bambino di dieci anni mi spiega le differenze tra pistole e carabine da caccia, le sue preferite; un ragazzo in primo liceo linguistico mi dice come finalmente abbia trovato nelle armi una passione che non aveva; un padre sa che all’interno di Eos sua figlia di 10 anni non può maneggiare armi, ma mi chiede che senso ha visto che fuori la porta a sparare con lui; un nonno, venuto dalla Svizzera con tre nipoti di sette, nove e dieci anni, lascia che siano loro a enumerare le armi che hanno visto e che vorrebbero avere; un cacciatore di Piacenza è orgoglioso di dirmi che porta suo figlio a caccia, anche se ha meno di dieci anni «ha già preso confidenza con le armi»; un padre abruzzese abbraccia la figlia di otto anni, l’amore per gli animali, mi dice, è andato di pari passo con quello della caccia, ogni tanto vanno insieme nei boschi ma più al poligono; un padre con due bambini di nove e sette anni ha organizzato la gita in famiglia e anche se ancora non li ha mai portati a caccia, è orgoglioso che il più piccolo voglia essere intervistato: «La doppietta! La doppietta!», mi urla facendo il gesto dello sparo; un altro bambino mi spiega, come fosse la lezione appena imparata dal padre, le ragioni per preferire i fucili sovrapposti.

Bisogna educarli così da piccoli, concordano tutti. E in molti sarebbero d’accordo anche a inserire tiro al poligono tra le attività da fare a scuola, sia alle superiori che alle medie, e per la primaria almeno «un’educazione a come sono fatte le armi, in altri paesi si fa». Non capiscono chi possa essere contro.

MANGANELLATE

Un momento della manifestazione pro Palestina davanti alla Fiera di Verona

Fuori dai padiglioni di Veronafiere c’è un piccolo presidio di animalisti e un grosso corteo, con mille persone, organizzato dal comitato per la Palestina. Parte alle tre e circumnaviga Eos, senza potersi avvicinare, impedito da un dispiegamento enorme di poliziotti in antisommossa. Contesta chi ha organizzato e permesso questa fiera, «un’orgia di morte», l’idea che si possa pensare non solo di normalizzare ma di educare alla cultura delle armi; sulla parete del camioncino sono esposti i loghi di tutte le aziende che producono armi per la caccia come per le guerre e per la cosiddetta difesa personale. Quando arriviamo davanti all’ingresso, il cordone di poliziotti si stringe, e carica i manifestanti, un paio finiscono al pronto soccorso. C’è un bambino di sette anni, vuole stare in prima fila, ma quando arrivano le cariche, si spaventa e piange. Me lo prendo da parte per tranquillizzarlo. Gli do un quaderno e gli dico di scrivere quello che vuole. Fa l’elenco dei suoi compagni di classe, e poi scrive: «Se i poliziotti arrestano i cattivi, perché fanno piangere i bambini della Palestina?».

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