A Lima, in Perù, sono passate da poco le 9 di mattina e Camila Gianella Sanchez Velasquez si trova nella scuola privata in cui insegna italiano. Ha 27 anni e una laurea in filologia moderna, con una specializzazione nell’insegnamento di italiano agli stranieri. Ha frequentato tutte le scuole in Italia e si è poi iscritta all’università a Perugia. «Mentre facevo richiesta per i crediti formativi per diventare insegnante, ho aperto il bando e ho scoperto di non poter partecipare ai concorsi, perché non ho la cittadinanza», racconta.

Finita l’università credeva di poter fare il lavoro per cui aveva studiato, nelle scuole pubbliche italiane, ma il paese in cui i suoi genitori hanno deciso di trasferirsi quando lei aveva cinque anni l’ha messa di fronte a una scelta: fare un lavoro qualsiasi per tre anni e raggiungere il reddito richiesto per fare domanda di cittadinanza – «ammesso che ci sarei riuscita», precisa – o partire «e fare una cosa che realmente mi piace».

«Come mi dovevo sentire?», continua. «Purtroppo è un’ingiustizia». La cittadinanza è anche la possibilità di scegliere il proprio futuro, di seguire le proprie passioni e aspirazioni. E, invece, «se voglio lavorare in comune non posso, non posso fare la poliziotta o la militare». E si chiede cosa rimane a fare in Italia. «Le nostre madri facevano le pulizie, ora noi lavoriamo nella ristorazione. Poco a poco si va avanti, ma molto a rilento», dice Sanchez Velasquez, sottolineando come le nuove generazioni vogliano contribuire alla crescita effettiva del proprio paese, ma non hanno la possibilità di farlo.

Voto negato

La docente, che ha la cittadinanza peruviana, ha deciso quindi di trasferirsi a Lima tre mesi fa. È una piccola realtà, spiega, «ma almeno posso fare quello che mi piace fare: insegnare». Da oltre 10mila chilometri di distanza ha però partecipato alla campagna referendaria, che chiede di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza continuativa richiesti per poter presentare domanda di cittadinanza. Un piccolo passo, per i promotori, verso una riforma più strutturale della legge del 1992, tra le più restrittive d’Europa.

Quello di domani e lunedì è un voto che la riguarda, ma su cui non può incidere. La racconta come un’altra esclusione: «Ti senti impotente, perché non puoi esprimerti». Anche se ha vissuto in Italia dai 5 ai 27 anni, a Roma e poi a Perugia, e quindi aveva il requisito della residenza di 10 anni, c’era l’ostacolo legato al reddito minimo: è necessario provare un reddito di almeno 8mila euro annui, cifra che aumenta se ci sono familiari a carico.

«Come fa una bambina», chiede, «che arriva a 5 anni, studia fino ai 18 e decide di fare cinque anni di università a raggiungere il reddito? Come fanno i genitori se non hanno una professione che glielo permette? Partiamo già da una condizione di svantaggio». Ora non sa nemmeno se riuscirà a rientrare in Italia, dove si trova la sua famiglia e il paradosso è che per avere il reddito dovrebbe lavorare, ma non può fare il lavoro per cui ha studiato. La legge in vigore crea discriminazioni, anche all’interno del nucleo familiare: il quarto fratello è nato nel nostro paese, a breve compirà 18 anni e potrà richiedere la cittadinanza.

Ma le discriminazioni maggiori le ha vissute in questura, quando doveva rinnovare il permesso di soggiorno. Oltre ai tempi di attesa, è il trattamento che viene riservato alle persone di origine straniera a minare la dignità. «Ti trattano come se fossi un criminale», racconta con rabbia Sanchez Velasquez, «come se non capissi niente, non avessi cultura o istruzione, né il diritto di avere nulla». E, conclude, un bambino che vive queste situazioni si sente sempre diverso: «Ci hanno insegnato che la diversità è una ricchezza, ma se non viene valorizzata rimane solo uno svantaggio».

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