Tra i cinque referendum abrogativi indetti l’8 e il 9 giugno uno dei quesiti si occupa di cittadinanza. Di fronte a una legge che ha più di trent’anni e che per esperti e attivisti è «nata vecchia», il comitato promotore chiede di abrogare una parte della norma del 1992 e ridurre il requisito della residenza in Italia da 10 a 5 anni. 

«Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione” e lettera f) della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?”», recita il quesito depositato il 4 settembre 2024 in Cassazione

Il referendum si occupa di quella che viene chiamata cittadinanza per naturalizzazione, e quindi nei casi in cui una persona non sia nata sul territorio dello stato, né sia figlia o figlio di cittadino italiano. Può essere per matrimonio o per residenza. C’è una precisazione da fare, però: la cittadinanza per naturalizzazione, a differenza delle altre modalità di acquisizione, non è un diritto ma una concessione dello stato. Ed è un percorso ad ostacoli

La residenza

L’articolo 9 della legge del 1992 prevede che «la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del ministro dell’Interno» al cittadino straniero «che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio» dello stato. Questo termine si riduce a quattro anni per i cittadini comunitari e a cinque anni per le persone apolidi, che quindi non hanno alcuna cittadinanza. 

Il referendum dell’8 e 9 giugno perciò chiede di abrogare in toto la lettera f), che prevede questo termine, e di uniformarla alla disciplina prevista per chi viene adottato da un cittadino italiano. Cittadini stranieri adottati e non potrebbero, se passasse il referendum, fare domanda di cittadinanza se residenti in Italia per cinque anni consecutivi.

Una volta ottenuta la cittadinanza italiana con questo nuovo requisito, il referendum consentirebbe poi di trasmettere automaticamente ai figli e alle figlie minorenni. 

Un primo passo

Questa iniziativa porterebbe alla situazione precedente al 1992, quando è stata introdotta la legge ancora in vigore con uno degli standard più restrittivi d’Europa.

Questo intervento darebbe la possibilità a circa 2,5 milioni di persone di origine straniera di accedere alla cittadinanza, e con questa avere la possibilità di «partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare, poter partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani», spiega il comitato promotore. Persone che vivono da moltissimi anni in Italia e che partecipano pienamente alla dimensione sociale e lavorativa del paese

Per i promotori e le promotrici la modifica che verrebbe apportata dal referendum costituirebbe solo il primo passo in prospettiva di una riforma strutturale della legge. 

I requisiti

«La legge sulla cittadinanza è vecchia di 32 anni, appartiene a un’epoca in cui la presenza straniera in Italia era limitata a poche centinaia di migliaia di persone», aveva commentato l’ex senatore Luigi Manconi a Domani. La normativa è molto stringente, a partire dal requisito della residenza, e non solo per la durata. La residenza legale infatti non deve avere interruzioni e, per qualsiasi motivo, può accadere ad esempio di non avere il contratto della casa in affitto. Il buco della residenza è uno dei principali motivi di rigetto.

Ma ci sono altri requisiti che spesso ostacolano l’accesso alla richiesta: oltre alla documentazione – certificati di nascita, casellario giudiziale del paese di origine, non sempre facili da reperire – e alla conoscenza della lingua italiana, la legge prevede un reddito minimo, che spesso è un grande ostacolo vista la precarietà lavorativa o il lavoro nero. 

Anche se tutti i requisiti sono soddisfatti, non è automatico ricevere una risposta positiva e diventare cittadino, perché, come si diceva, non è un diritto ma una concessione. Cioè il ministero dell’Interno ha un’ampissima discrezionalità. A questo si aggiunge un lungo periodo di attesa, la decisione di solito arriva dopo almeno tre anni e il ricorso impiega almeno quattro.

Le tappe

Il quesito referendario è stato depositato in Cassazione da un gruppo di associazioni, organizzazioni, partiti e personalità singole. Un’iniziativa dal basso, in cui sono in prima linea le associazioni di persone con background migratorio, come Italiani senza cittadinanza, CoNNGI e Idem Network. A promuovere la campagna anche partiti come Più Europa, Possibile, Partito Socialista, Radicali Italiani, Rifondazione Comunista e diverse personalità come Luigi Manconi e Mauro Palma

In breve tempo sono state raccolte oltre 637mila firme di cittadini e cittadini, anche tramite la piattaforma online del ministero della Giustizia. Le firme sono poi state validate dalla Cassazione e il referendum è stato ritenuto ammissibile dalla Corte costituzionale, perché «omogeneo, chiaro e univoco».  

Dunque, il futuro di questa modifica si giocherà l’8 e il 9 giugno, se si raggiungerà il quorum costitutivo. Per essere valido quindi dovrà recarsi a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto di voto. E l’abrogazione si avrà se sarà raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. 

È proprio la partecipazione al voto che preoccupa chi sostiene il referendum, anche perché la maggioranza di governo ha deciso di boicottarle questo e gli altri quattro inducendo gli elettori al non voto. C’è un alto rischio che il quorum costitutivo non venga raggiunto, non solo per l’invito del governo e per quella che le opposizioni definiscono censura in Rai, ma anche per la crescita dell’astensionismo negli ultimi anni. Vero è che è stata data la possibilità ai fuori sede per lavoro, studio o cure mediche di registrarsi per votare nel comune di domicilio. 

I motivi del sì e del no

Chi è favorevole al sì, considera la legge del 1992, una legge vecchia che – per dirla con Manconi – non tiene conto degli immensi cambiamenti sociali. Una legge che porta a discriminazioni e a diritti negati. E «il problema di accesso completo ai diritti non è tema di schieramento politico, ma di democrazia e civiltà di un paese», aveva precisato l’ex garante dei detenuti Mauro Palma.

Le associazioni delle nuove generazioni, nate o cresciute in Italia da genitori di origini straniere, chiedono di essere non solo oggetto di dibattito ma soggetti coinvolti, e quindi poter avere un ruolo attivo nella comunità in cui vivono. C’è poi un tema di riconoscimento – non crescere in una condizione di diversità imposta e di esclusione – e di diritti: poter partecipare a un concorso pubblico, poter andare all’estero o esercitare alcune professioni

Chi sostiene il no invece ritiene la legge congrua e addirittura – aveva detto il ministro dell’Interno Piantedosi – generosa, sostenendo che sia in testa agli altri stati dell’Unione europea. Come sottolinea Pagella Politica, altri pensano che la cittadinanza sia un punto di arrivo e non di partenza e abbassare il termine «potrebbe indebolire il valore dell’integrazione culturale e sociale», o ancora l’abrogazione di una sola parte non risolverebbe i problemi in modo sistemico. 

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