È il 23 agosto, a Roma, nella città calda e desolata tre uomini sono in fila, sostano in attesa davanti alla sede di uno sportello per migranti e rifugiati che si trova all’interno di un centro sociale, lo Spin Time Labs, nel quartiere Esquilino.

C’è un cittadino del Sudan, Khalid. Ha 35 anni e svolge qualche lavoretto saltuario, in nero, dato che nel centro di accoglienza straordinario (Cas) dove è ospitato fin dal suo arrivo in Italia, non era previsto – secondo la legge che ha istituito questi centri – un percorso di sostegno lavorativo.

Accanto a lui c’è Idris, ha 50 anni ed è nato in Somalia. Aspetta da diverse settimane di ricevere una comunicazione dall’ufficio immigrazione della questura di Roma che dovrà rilasciargli il permesso di soggiorno. Anche Idris è ospite di un centro di accoglienza straordinario, così Ahmed, trentenne di origina afghana che attende da alcuni mesi di essere convocato dagli uffici di via Teofilo Patini per poter rilasciare le sue impronte e ricevere un permesso con cui attestare la sua presenza regolare in Italia.

«Nella settimana tra il 14 e il 20 agosto tutti hanno ricevuto una comunicazione dalla prefettura di avvio procedimento per la cessazione delle misure di accoglienza. Abbiamo attualmente in carico quindici persone in questa situazione di grande difficoltà, perché alcuni non hanno nemmeno ancora ricevuto la comunicazione per il rilascio del permesso di soggiorno», racconta Giovanna Cavallo, operatrice presso lo sportello di assistenza legale Legal aid che si trova all’interno dello stesso centro sociale e fa parte della rete del Forum per cambiare l’ordine delle cose.

«Contro questa decisione prefettizia chiederemo al tribunale amministrativo l’accesso immediato per queste persone al sistema di accoglienza ordinario (Sai, ex Sprar ndr). Vogliamo, inoltre, che sia fatta chiarezza sul meccanismo di assegnazione dei posti all’interno del sistema di accoglienza, che non è chiaro e trasparente», aggiunge. E poi conclude: «A Roma i tempi che intercorrono tra il riconoscimento della protezione e il rilascio del permesso di soggiorno da parte della questura possono raggiungere anche i dodici mesi, e una persona, nel frattempo, non può finire in strada».

Diritti a rischio

Ad aver complicato il quadro delle tutele per i richiedenti asilo e rifugiati è stata la circolare firmata il 7 agosto scorso dal funzionario del ministro dell’interno, Francesco Zito. Nel documento, che è stato consultato da Domani, si legge che «con particolare riferimento ai soggetti che abbiano ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale, ma che siano ancora ospitati nelle strutture di cui agli artt. 9 e 11 del citato D.Lgs. 142/2015 (centri straordinari) si evidenzia la necessità che venga disposta la cessazione delle misure di accoglienza, anche nelle more della consegna del conseguente permesso di soggiorno». E ancora, si precisa che «l’applicazione di tale misura avverrà nell’ottica di corretto utilizzo delle risorse pubbliche, al fine di assicurare il turn over nelle strutture di accoglienza e garantire la disponibilità di soluzioni alloggiative in favore degli aventi diritto».

A Bologna il prefetto Attilio Visconti, già qualche giorno prima della circolare del Viminale, aveva mandato una comunicazione agli enti gestori in cui in sostanza si intimava, a un centinaio di richiedenti asilo che da tre anni erano ospiti dei centri, di uscire immediatamente. «In realtà, questa circolare del prefetto di Bologna è ancora più illegittima di quella del ministero», precisa l’avvocata dell’Associazione studi giuridici immigrazione, Nazzarena Zorzella, «perché i richiedenti asilo hanno per legge il diritto di rimanere in accoglienza fino alla conclusione dell’intero iter di protezione internazionale, cioè anche nel caso in cui abbiano presentato ricorso, e fino alla decisione ultima del tribunale».

Tornando alla circolare del Viminale, Zorzella riferisce che sia la prefettura di Mantova sia quella di Pisa stanno già procedendo con le comunicazioni di revoca dell’accoglienza per chi è titolare di protezione internazionale: «Si tratta di un provvedimento, anche questo, completamente illegittimo, che non tiene conto delle linee guida dello stesso ministero, le quali prevedono un periodo di permanenza di sei mesi nei Sai, dove hanno il diritto di essere accolti, ancora più a lungo, le persone che hanno qualche tipo di vulnerabilità. E non possono, dunque, essere sbattuti in strada». Eppure, sempre più spesso, accade. È il caso di un ragazzo somalo di 30 anni. L’avvocata che lo assiste, Loredana Leo, si è rivolta al Tar del Lazio. «Perché lo stesso è costretto a vivere in strada e a cercare di giorno in giorno alloggi di fortuna e la sua situazione psicofisica esige una presa in carico continuativa», si legge nel ricorso per cui si attende ancora l’esito.

Scarsa trasparenza

Secondo i dati aggregati diffusi nel “dossier Ferragosto” dallo stesso Viminale, da gennaio a luglio di quest’anno le richieste d’asilo sono state 72.460, il 70 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E le domande che sono state già esaminate sono circa 33.000, poco più della metà di quelle ricevute.

Questo dato è però parziale, perché non è utile a fotografare le persone che ogni anno avrebbero diritto all’accoglienza, per esempio i minori. Quanto ai centri, una mappa aggiornata e ufficiale di quelli gestiti dalle prefetture, attualmente, non esiste. Si sa soltanto che il 70 per cento dei richiedenti asilo presenti oggi in Italia sono ospitati nei così detti Cas. La quota restante viene “gestita” attraverso il sistema ordinario, gli ex Sprar, che ora si chiamano Sai, sono di competenza dei comuni ma dipendenti dai fondi dello stesso ministero dell’Interno. Da parte sua entro il 30 giugno di ogni anno il Viminale dovrebbe presentare al parlamento la relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza al fine di «fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale».

Un appuntamento che il ministero disattende regolarmente, pubblicando le relazioni in ritardo. Gli ultimi dati disponibili sono quelli relativi al 2021. Nonostante gli obblighi di legge, la relazione sul sistema con i dati sul 2022 non è ancora stata pubblicata, quella sul 2020 è stata trasmessa alle camere soltanto il 16 ottobre 2022 e quella relativa al 2021, il 29 novembre scorso.

Tutto ciò che sappiamo nel dettaglio sulle strutture, i posti disponibili, le presenze, i prezzi per l’erogazione dei singoli servizi e dei gestori che li erogano, centro per centro, lo apprendiamo da una piattaforma opendata aggiornata una volta l’anno che si chiama Centri d’Italia, realizzata da Openpolis insieme alla ong ActionAid.

Fabrizio Coresi, che per la ong è esperto di migrazione, dice che «dal 2018 al 2021 sono stati chiusi più di 3.500 centri, soprattutto le strutture più piccole, con meno di 20 posti letto: i Cas di piccole dimensioni hanno perso 24.000 posti. Mentre il sistema ordinario gestito dai comuni, nello stesso periodo, ha perso oltre 1.000 posti». Non solo, dice Coresi: «Nell’ultimo rapporto che abbiamo pubblicato, Il vuoto dell’accoglienza, emerge come dato più rilevante quello sui posti liberi. Nonostante il continuo richiamo al sistema al collasso, oltre il 20 per cento dei posti disponibili tra il 2018 e il 2021 non è stato utilizzato. Un dato che varia da provincia a provincia, un vuoto dell’accoglienza che interessa ampiamente il sistema ordinario che, al 31 dicembre 2021, aveva più di 10mila posti liberi, quasi il 30 per cento della rete Sai».

«Nonostante sentenze del Tar e del Consiglio di stato che impongono al ministero di fornirci dati, il Viminale oppone ora un nuovo rifiuto – conclude – La lettura distorta della realtà, d’altra parte, è favorita dalla mancanza di trasparenza e ha portato a riproporre norme che avevamo visto nel decreto Sicurezza del 2018, addirittura peggiorandole.

Anche se i dati dovessero mostrare la saturazione del sistema nel 2022-2023, quindi, questa non sarebbe dovuta certo al numero degli arrivi, ma all’assenza di pianificazione, al mancato investimento nel sistema ordinario, a una gestione non trasparente e irrazionale, a politiche che, nei fatti, gettano le basi per creare l’emergenza che si propongono di affrontare». Altro che invasione.

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