Il ministero dell’Istruzione e del Merito ha annunciato con enfasi l’assunzione di 54.526 docenti per l’anno scolastico 2025/26, definendo il contingente un «numero record» e parlando di «continuità didattica» e «valorizzazione del merito». Ma dietro la narrazione trionfale si cela l’ennesima operazione di maquillage: a fronte di oltre 90.000 posti vacanti e altri 160.000 in deroga, il sistema continuerà a reggersi su più di 250.000 supplenze. La stabilità quindi resta un miraggio e la precarietà una costante strutturale.

Le 54.526 assunzioni infatti si suddividono in 48.504 posti comuni e di sostegno, e 6.022 per insegnanti di religione cattolica, che derivano da un concorso straordinario indetto nel 2024 dopo vent’anni di attesa. Ed è proprio quest’ultima quota a permettere al Ministero di raggiungere la cifra tonda, gonfiando il dato complessivo di una misura non ripetibile annualmente. Il piano di assunzioni effettive riguarda quindi meno di 49.000 posti.

L’intervento copre appena il 21% del fabbisogno reale: restano scoperti circa 90.000 posti nell’organico di diritto e 160.000 posti di sostegno in deroga, coperti da supplenti annuali. Lo ha denunciato la Flc Cgil, sottolineando che si tratta di personale «strutturalmente precario» e non marginale. A confermare l’analisi ci sono i dati dell’Istat e quelli diffusi da Cisl Scuola: il numero complessivo di supplenze nel 2025/26 sfiorerà le 260.000 unità, un record ben diverso da quello celebrato da Valditara.

Il comparto più fragile, quello del sostegno, continua a pagare il prezzo più alto. Dei 48.504 posti autorizzati, solo 13.860 sono destinati al sostegno, a fronte di circa 180.000 alunni con disabilità e di oltre 160.000 cattedre di sostegno assegnate in deroga. Oltre il 70% di queste verranno affidate a supplenti senza specializzazione, spesso nominati tramite Mad (messe a disposizione). Così la tanto sbandierata continuità didattica resta un miraggio, soprattutto per gli studenti che ne avrebbero più bisogno.

A peggiorare la situazione c’è l’assenza di un piano strutturale di stabilizzazione dei posti in deroga. Il sistema continua a produrre precarietà per legge: quei posti, pur essendo occupati ogni anno, non possono essere stabilizzati. Così l’emergenza diventa prassi.

Nel racconto ministeriale non c’è traccia del personale Ata, che rappresenta oltre un terzo della forza lavoro scolastica. Secondo Anief e Uil, mancano oggi almeno 40.000 collaboratori scolastici, assistenti tecnici e amministrativi. Nel solo 2023/24 si sono contate oltre 53.000 supplenze Ata, ma nessun piano straordinario è stato annunciato. La conseguenza è un carico crescente sulle segreterie, un’organizzazione inefficiente e una gestione dei supplenti docenti sempre più caotica.

Precarietà strutturale

Nel 2015 il governo Renzi, con la riforma della “Buona Scuola”, mise in ruolo 86.000 docenti in un solo anno. Quella sì, fu una stabilizzazione massiccia. Il governo Draghi autorizzò 112.000 assunzioni nel 2021-22, ma solo 59.000 furono portate a termine a causa di ritardi e blocchi nelle graduatorie. Il governo Conte II, nel pieno della pandemia, pianificò 85.000 assunzioni ma ne realizzò poco più di 20.000.

I 54.526 posti annunciati da Valditara, quindi, non rappresentano un record ma un ridimensionamento. Anche la percentuale di posti effettivamente coperti sarà inferiore, considerando le rinunce, le difficoltà logistiche e le procedure farraginose che, da anni, caratterizzano il reclutamento nella scuola.

La precarietà nella scuola italiana non è una patologia improvvisa. È un dispositivo sistemico costruito nel tempo, a partire dalla separazione tra organico di diritto e organico di fatto. I posti realmente necessari al funzionamento delle scuole non vengono autorizzati come stabili e restano condannati alla supplenza. Il Mef nega sistematicamente la trasformazione dell’organico “di fatto” in organico “di diritto” per contenere la spesa. Il risultato è un turnover continuo che vanifica ogni tentativo di costruire comunità educative durature.

L’anno scorso l’Italia è stata deferita alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per abuso sistematico dei contratti a termine nella scuola. Il paese viola la direttiva 1999/70/Ce, che impone la tutela dei lavoratori precari. L’Ocse, nel frattempo, rileva che l’Italia spende solo il 4,1% del Pil per l’istruzione (media UE: 4,8%) e che i salari dei docenti italiani sono tra i più bassi d’Europa.

Eppure secondo uno studio della Uil, stabilizzare 250.000 docenti costerebbe meno di 200 milioni di euro all’anno, una cifra irrisoria rispetto al bilancio complessivo del ministero dell’Istruzione. Ma la precarietà resta il perno su cui si regge il sistema perché il risparmio contabile – spesso solo apparente – sembra valere più della dignità del lavoro.

Il ministro Valditara può anche continuare a rivendicare il “record” di assunzioni. Ma la scuola italiana, quella reale, quella che si prepara al suono della campanella, resta precaria, esausta e ignorata. Servirebbero meno trionfalismi e più scelte strutturali. Il tempo, anche quello della pazienza, è già scaduto.

© Riproduzione riservata