Secondo l’Istat in Italia ogni 100 giovani ci sono 187 anziani. I termini sono magari un po’ brutali ma rendono l’idea. Fra i tanti aspetti di cui si sta via via caricando il personaggio Sinner, ce n’è anche uno sociale. Il ragazzo di Sesto Pusteria che ha riacceso l’entusiasmo come Alberto Tomba e Valentino Rossi, è oggi (anche) il simbolo di una generazione che chiede spazio e considerazione.

Novak Djokovic, che compirà 37 anni a maggio e che ha già annunciato l’intenzione di proseguire fino a 40 anni se fisico e testa lo supporteranno, è (anche) il volto di chi ha conquistato un ruolo nel corso di una vita e non è così disposto a farsi da parte. Dalle nostre parti, il continuo innalzarsi dell’età pensionabile glielo renderebbe comunque impossibile, anche se lo volesse. Il risultato è che l’opposizione giovani-vecchi forse non è mai stata così pronunciata. E il duello fra Sinner e Djokovic, semifinale agli Australian Open, ne è il simbolo perfetto.

Succede spesso nel tennis, non per nulla lo sport che più si offre a diventare riflesso di tendenze e crisi presenti nella società. Basti pensare a quanto sta succedendo in campo femminile dopo lo scoppio della guerra in Ucraina: con Kostyuk e Kalinina che si sono rifiutate più volte di stringere la mano alle loro avversarie russe, fino alla malcapitata sedicenne Kotlyar che pochi giorni fa la mano alla russa Minchova l’ha stretta senza pensarci troppo, diventando un caso politico.

Nel caso di Sinner e Djokovic non siamo di fronte a un singolo match ma a una sorta di serie a puntate che ha preso il via due anni fa a Wimbledon e ha preso corpo nel 2023 con episodi francamente memorabili: la simbologia allora diventa più pesante. Il serbo non è un atleta comune: è un tennista-Paese. Nole gioca a tennis non solo per l’oggi ma soprattutto per il domani.

I suoi obiettivi sono rendere inattaccabile il ruolo di giocatore più vincente della storia per molti anni a venire e sono in tanti a ritenere che tutto questo lo porterà quasi inevitabilmente a ricoprire un ruolo politico di rilievo in Serbia, nel prossimo futuro.

Chi nutrisse dubbi può fugarli guardando le ovazioni prolungate e quasi religiose di cui Nole è fatto oggetto ogni volta che si concede di assistere a una partita di basket della Crvena Zvezda, la Stella Rossa, sua squadra del cuore, a Belgrado.

Con un progetto di vita così davanti a sé, si capisce con facilità perché il “vecchio” Nole non abbia alcuna intenzione di abdicare. Specie in un anno contrassegnato dall’appuntamento olimpico, dove il ruolo di atleta-Stato conta più che altrove e dove il serbo vuole più di tutto vendicare la sconfitta di Tokyo che nel 2021 gli costò (oltre a una scheggia di autostima) pure la conquista del Grande Slam. Arrivò a New York prosciugato e si offrì alle grinfie di Medvedev.

L’anti-Djokovic

Sinner un atleta-Paese non lo è ed è complicato prevedere se lo diventerà, c’è chi gli rimprovera di risiedere a Montecarlo e dunque di non pagare le tasse in Italia. Ma certamente Jannik è assurto al ruolo di immagine di nuovo italiano, così lontano dal modello di ragazzo choosy contro cui l’allora ministra Elsa Fornero puntò il dito, al tempo della riforma delle pensioni.

Ammesso che quei choosy esistessero, Jannik è ora il leader di un gruppo di giovani che si coprono di gloria all’estero, perché dalle nostre parti la situazione è bloccata, non hanno trovato spazio. È oggi la testimonianza vivente di come il talento, se sottoposto a incessante lavoro di perfezionamento, possa fiorire e portare frutto senza dover aspettare l’età matura.

Di fatto lo slogan che pronuncia in una delle innumerevoli campagne pubblicitarie in cui veste i panni di testimonial («Tu sei futuro») dovrebbe diventare «Tu sei presente»: uno sprone rivolto a chi ha perso la speranza di costruire un progetto di vita in tempi accettabili. Jannik lo sa e si può ritenere che questo carico di responsabilità, per altri sportivi assai difficile da reggere, per lui sia carburante nel motore.

Poi c’è il campo, su cui tutto questo pesa. Il Sinner che nel 2022 affrontò Djokovic sull’erba di Wimbledon era una terra promessa tutta da scoprire. Nole, che ama prendersi il tempo necessario per studiare un avversario nuovo, andò sotto di due set e quando il servizio di Jannik rallentò, quando la sua desuetudine a cercare la rete divenne più palese, gli impartì una lezione su come si gestisce un incontro di altissimo livello. I due si erano incontrati anche l’anno prima sulla terra di Montecarlo ma eravamo ai primi vagiti di una rivalità.

L’anno scorso sempre a Londra fu partita vera ma monocorde: per Sinner il bello doveva ancora arrivare. L’epifania del bello si sarebbe palesata agli occhi del mondo dopo pochi mesi. Alle Finals di Torino un Sinner con il tennis più completo della sua vita, consapevole di aver raggiunto il livello per cui aveva lavorato fin da quando scelse di abbandonare i pali piantati nella neve per dedicarsi a quelli che reggono la rete, diede spettacolo nel girone e si arrese in finale: più che ai colpi del serbo alla sua debordante personalità.

Non sarebbe stato che un antipasto: a Málaga, nella finale di Davis, al termine di una partita diventata patrimonio comune, Jannik vinse nel peggiore dei modi possibili per il suo avversario: annullandogli tre match-point e costringendolo a scendere in campo per un doppio decisivo. Disciplina, il doppio, che Nole pratica più frequentemente sul campo di casa con i figlioletti che nel tour. Un doppio smacco che per Nole rappresenterà, non è difficile prevederlo, una macchia da lavare quanto prima.

E il prima sarà nel match che potrebbe (potrebbe) diventare il segno di un cambio generazionale avvenuto. Un passaggio che nel tennis non è mai indolore per chi esce sconfitto ed è invece foriero di smisurate energie per chi vince.

Gli esempi si sprecano: nel 2001 a Wimbledon un Roger Federer il cui aspetto esteriore era ancora distante da quello del perfetto gentleman in cui si sarebbe trasformato, chiuse di fatto la fantastica carriera di Pete Sampras rispondendo, dopo cinque set, in modo spietato al servizio esterno dell’americano. Uno smacco potente per chi su quel colpo aveva costruito un gioco e una carriera. E anche in casa nostra i passaggi generazionali non sono mai stati banali.

Nel 1970, quando ancora esistevano gli Assoluti, Adriano Panatta batté Pietrangeli dopo cinque set: e quella sconfitta Nicola (come molte altre cosette, per la verità) non l’ha digerita nemmeno oggi, dopo 54 anni. Anche in quel caso fu un passaggio dai connotati sociali: con la vittoria di Adriano il tennis entrava in un’epoca di seguito popolare che mai aveva conosciuto prima. Sinner-Djokovic non sarà una partita normale, né potrebbe esserlo. Ma un altro capitolo di una di quelle storie che ci fanno compagnia nella vita. E che, in qualche caso, la scandiscono.

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