Non è stato Facebook a inaugurare l’epoca dei social network. Prima che, il 4 febbraio 2004, Mark Zuckerberg lanciasse la sua piattaforma, si erano infatti già visti esperimenti pionieristici come Classmates.com o i più maturi Friendster e Myspace. Per quanto importanti, queste prime forme social non sono però mai diventate dei fenomeni di massa: all’apice del loro successo, attorno al 2008, Friendster e Myspace contavano infatti entrambi su poco più di 100 milioni di iscritti.

Briciole per Facebook, che superava Myspace per numero di iscritti nel 2008 e raggiungeva un miliardo di utenti nel 2012 e poi due miliardi nel 2017. Il culmine è invece giunto nel corso del 2021, quando la creatura di Zuckerberg è arrivata a quota 2,9 miliardi di utenti (su 4,9 miliardi di persone che, nel mondo, sono connesse a internet).

Anche da questi numeri si capisce quanto sia riduttivo parlare di Facebook come di un semplice “fenomeno di massa”: il più grande social network della storia è stato – assieme al web e agli smartphone – la colonna portante della nostra epoca digitale. Non è nemmeno esagerato affermare che, nel bene o (più spesso) nel male, Facebook abbia letteralmente cambiato il mondo: dal punto di vista dell’informazione, delle relazioni sociali, della comunicazione politica, della propaganda e altro ancora.

Ritorno al passato

In un’epoca in cui si parla tantissimo della presunta “fine dei social network”, ha quindi senso partire proprio da Facebook per capire come, in meno di 20 anni, la funzione iniziale di queste piattaforme si sia in buona parte esaurita e come esse stiano invece vivendo un curioso ritorno al passato: un ritorno a un modello di trasmissione tradizionale che ricorda da vicino un medium che qualche anno si pensava fosse quasi a rischio estinzione, vale a dire la televisione.

Partiamo allora dall’inizio. Al di là degli esordi goliardici, l’espansione di Facebook avviene grazie alla possibilità di creare, per l’appunto, una rete sociale online, sfruttando a questo scopo l’apposito pulsante della “richiesta di amicizia”. Fin dall’inizio, è questo l’elemento fondamentale di Facebook, che lo caratterizza da ben prima che facessero la loro comparsa il newsfeed (2006) o il tasto like (2009). La richiesta d’amicizia è ciò che rende reciproche le relazioni su questa piattaforma: per vedere gli aggiornamenti social di una persona è infatti necessario che lei accetti di seguire i miei.

La “richiesta di amicizia” porta inevitabilmente a usare Facebook – almeno nella prima fase – per entrare in contatto con amici, ex compagni, parenti, colleghi, ecc. (come vedremo tra poco, non era scontato che andasse così). Di conseguenza, su Facebook si creare una struttura relazionale reticolare e paritaria, basata su un modello “da tanti verso tanti”, in cui ciascuno di noi può far sentire la propria voce e mettere in piazza (digitale) materiale di ogni tipo.

Dai giornali alla radio, fino alla televisione: prima di Facebook, il modello dei mass media tradizionali era invece sempre stato piramidale, portando la voce di pochi a essere ascoltata o letta da molti. Il primo grande social network di massa rovescia questo modello: le persone comuni possono per la prima volta farsi sentire (o almeno averne l’impressione), mentre le celebrità o le personalità politiche possono invece dare l’impressione di essere dei normali utenti di Facebook, che comunicano con i loro pari usandone lo stesso linguaggio (come intuito, tra i primi in Italia, da Matteo Salvini).

Il modello di Instagram

Nel giro di pochi anni, però, le cose iniziano a cambiare. Nel 2010 viene infatti lanciato Instagram (acquistato da Facebook nel 2012 e che raggiungerà il miliardo di utenti nel 2018), il cui modello relazionale è completamente diverso. Invece di stringere amicizia, su Instagram si diventa follower, senza bisogno che la relazione sia reciproca.

Prima di proseguire, è però importante sottolineare come non sia stato Instagram a introdurre per primo questo cambiamento, ma Twitter: social network fondato nel 2006 e quindi praticamente contemporaneo di Facebook. Da un certo punto di vista, Twitter è un sorprendente precursore: è la piattaforma che per prima ha intuito (probabilmente senza averne piena consapevolezza) come un social network non debba necessariamente mettere tutti sullo stesso piano.

Non solo: Twitter è storicamente stata usata dalla maggior parte degli utenti non tanto per pubblicare contenuti, ma per seguire i post di sportivi, celebrità, giornalisti, politici o per essere aggiornati in tempo reale, tramite hashtag, sugli avvenimenti più importanti del momento.

Nonostante le fondamentali innovazioni introdotte (pagate al prezzo di una mai risolta crisi d’identità), è innegabile come sia però stato Instagram a portare alle sue logiche conseguenze la sostituzione del tasto “aggiungi agli amici” con quello del “follow”, che non richiede più la reciprocità ma ci permette di seguire persone specifiche senza che loro nemmeno sappiano che faccia abbiamo. È infatti questo elemento a portare, su Instagram, alla nascita degli influencer: persone valutate esclusivamente in base alle dimensioni del loro séguito e la cui stessa esistenza presuppone un’asimmetria relazionale, che in Facebook, inizialmente, non era invece nemmeno concepita.

La forma piramidale

Con Instagram (anticipato come abbiamo visto da Twitter) cambia il modello dei social network, che inizia ad assumere forme nuovamente piramidali: dall’alto verso il basso, dai pochi verso i tanti, dagli influencer verso i normali utenti. Ed è proprio per questa ragione che, gradualmente, il termine social network viene sostituito con social media. Instagram diventa uno strumento che non utilizziamo (necessariamente) per restare in contatto con la nostra rete sociale, ma anche solo per seguire persone a cui siamo interessati.

L’avvento di TikTok, nel 2016, porta a compimento questo processo grazie a un ulteriore, fondamentale, passo avanti. Prima di tutto, al termine “influencer” si sostituisce gradualmente quello di “creator”, segnalando già dal nome come non si tratti più di trendsetter (come li avremmo definiti un tempo) che si limitano a mettere in mostra la loro vita sui social, ma di persone che creano veri e propri format in ambiti di ogni tipo: dal cabaret all’informazione, dalle clip sportive ai consigli sui libri, ecc. ecc. (un fenomeno che iniziava comunque a essere già presente anche su Instagram e anticipato da YouTube e Twitch, piattaforme però molto diverse dai classici social media).

Gli utenti comuni di TikTok vengono così definitivamente liberati dalla richiesta di prendere parte alla creazione di contenuti (si stima che oltre il 60 per cento degli utenti di TikTok non abbia mai pubblicato nulla), limitandosi a interagire con i video dei creator tramite like e commenti. Come ha scritto sul New York Times l’esperto di Media Ben Smith, “TikTok mette in mostra un flusso ininterrotto di video e, a differenza dei social network che sta rapidamente sostituendo, ha una funzione più di intrattenimento che di connessione con gli amici”.

Più che utenti, su TikTok siamo spettatori. E così, il cerchio si chiude: i social network nati per rivoluzionare la classica comunicazione broadcast hanno invece finito per replicarne i meccanismi. Come segnala Andrea Girolami nella sua newsletter, "la tecnologia diventa una commodity e le uniche cose che contano sono i format, i canali e i tormentoni veicolati. (...) Succede la stessa con la tv: non esiste una sostanziale differenza tecnologica tra Canale 5 e Raiuno, a cambiare sono i programmi e i volti all’interno di ciascun canale".

Sono trascorsi quasi vent’anni dalla nascita di Facebook e oltre quindici dall’arrivo del primo iPhone, ma quasi senza rendersene conto TikTok ha intuito ciò che finora ai social era sempre sfuggito: l’importanza di inventare una televisione formato smartphone.

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