In un’azienda normale la decisione di aumentare o di ridurre il personale è affidata a chi ha la responsabilità di gestirla. Non è così per le aziende di trasporto pubblico come dimostra il caso di Atac. Nella municipalizzata romana, a causa dei contagi Covid, si sono registrati negli scorsi giorni fino a 1.200 assenti pari a oltre il 10 per cento dell’organico. Le ricadute sul servizio erogato sembrano essere state molto circoscritte: non è stato effettuato solo un numero limitato di corse.

Il management aziendale ha messo allo studio alcune opzioni di intervento, tra cui la collaborazione fra enti per reperire personale con le qualificazioni necessarie da attuare nel caso di un eventuale peggioramento della situazione.

Ma si è visto quasi subito sconfessato dall’assessore capitolino ai trasporti, Eugenio Patanè, che si è detto contrario a soluzioni temporanee sostenendo la necessità di nuove assunzioni al ritmo di 150-200 autisti per anno.

Cercare il consenso elettorale

L’episodio mette bene alla luce qual è il problema principale delle aziende di trasporto pubblico. Cosa differenzia le municipalizzate dalle imprese che operano sul mercato? Il fatto che le loro fortune non dipendono, se non in minima parte, dalla capacità di soddisfare le esigenze di mobilità delle persone, né da quella di saper tenere sotto controllo i costi.

Per sopravvivere e crescere non devono dimostrarsi migliori delle imprese concorrenti che, semplicemente, non esistono. L’inesistenza, o quanto meno la debolezza, di un vincolo di bilancio apre le porte all’uso delle aziende a fini di consenso elettorale. E il fatto che le risorse per il settore non vengano acquisite tramite la fiscalità locale ma derivino da trasferimenti statali implica anche l’assenza di un disincentivo politico per l’amministratore comunale.

Non si guarda più esclusivamente all’interesse degli utenti e della collettività ma ci si preoccupa impropriamente di quello dei produttori. Che non può che essere in conflitto con il primo. Ogni scostamento in termini di produttività e di costo del lavoro rispetto a quello che si avrebbe in un assetto di mercato comporta necessariamente, a parità di risorse utilizzate, una minor quantità di servizi prodotti e/o prezzi più alti per gli utenti. Oppure, a parità di offerta, un onere più elevato per i contribuenti che, oggi in Italia, si fanno carico di più di due terzi dei costi di produzione dei servizi.

Fuori dal mercato 

Non stupisce quindi che i costi unitari di produzione del servizio di un’azienda come Atac siano all’incirca doppi rispetto a quelli delle imprese che forniscono i servizi nelle aree metropolitane britanniche operando come normali aziende nel mercato. Un utile termine di paragone lo troviamo anche da noi.

Come ha scritto su questo giornale Daniele Martini, i generosi sussidi che sono stati a lungo garantiti al gruppo Onorato per garantire la “continuità territoriale” con la Sardegna sono pressoché evaporati quando si è lasciata agire la concorrenza nel mercato o per il mercato: la gara per il collegamento tra Genova e Porto Torres è stata assegnata con un ribasso del 98 per cento.

Negli ultimi 12 anni i contributi pubblici ad Atac sono stati pari a circa dieci miliardi. Un’azienda efficiente avrebbe potuto produrre gli stessi servizi, a parità di introiti dalla vendita di biglietti e abbonamenti, con meno della metà delle risorse pubbliche effettivamente assorbite. Cinque miliardi a Roma e molti di più in Italia che tutti i – per lo più ignari – contribuenti hanno pagato e continueranno a pagare a vantaggio di chi si serve delle aziende pubbliche un po’ come Enrico Mattei diceva di utilizzare i partiti senza neppure pagare la corsa in autobus.

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