Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Nel frattempo, Salvatore Riina aveva, dato incarico a Giovanni Brusca di dare corso al già deliberato omicidio del Ministro Mannino, per poi revocargli improvvisamente l’incarico: e ciò sarebbe avvenuto, a dire dello stesso Brusca, dopo la strage di Capaci ma prima di quella di via D’Amelio, mentre per il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera ciò sarebbe avvenuto nel mese di ottobre. Ma un altro collaboratore di giustizia, a parere della pubblica accusa avrebbe dato ragione a Brusca.

Infatti, Angelo Siino ha dichiarato di essere venuto a conoscenza che era in itinere un progetto per uccidere Mannino; una conoscenza appresa mentre lo stesso Siino si trovava al carcere di Termini Imerese, già all’inizio del mese di settembre del ‘92.

Qualcosa era quindi successo, tra Capaci e via D’Amelio, che aveva indotto Riina a decidere l’accelerazione dell’attentato anch’esso già deciso ai danni del dott. Borsellino, e, al contempo,a sospendere l’esecuzione che era già in corso del piano per uccidere Mannino.

E cosa fosse successo, la pubblica accusa ritiene di poterlo desumere dalla concatenazione di una serie di eventi che s’assumono provati.

In particolare, dopo e a seguito dell’interlocuzione del Mannino con il Generale Subranni vertente sulle minacce di morte che il politico siciliano aveva ricevuto (o subodorato), Mario Mori e Giuseppe De Donno, ufficiali del Ros al comando di Subranni, si rivolsero a Vito Ciancimino affinché questi inoltrasse ai vertici di Cosa nostra l’invito ad allacciare un dialogo che portasse al superamento di quella situazione di scontro frontale con lo Stato (una proposta ben sintetizzate nelle parole con cui lo stesso Mori ebbe a rappresentarla nelle dichiarazioni rese alla corte d’Assise di Firenze: «Signor Ciancimino, non si può parlare con questa gente, deve ancora continuare questa contrapposizione muro contro muro?»).

E contestualmente o in epoca immediatamente successiva (cfr. pag. 8 della memoria “Mannino”), Totò Riina manifestò ai capi corleonesi a lui più vicini tutto il suo compiacimento per il fatto che esponenti delle istituzioni si erano fatti sotto (per trattare) e lui aveva fatto avere un papello così di richieste, nell’interesse di Cosa nostra.

Il ruolo del Mannino sarebbe stato anzitutto quello di sollecitatore e ispiratore della proposta veicolata dai carabinieri attraverso il canale Ciancimino fino ai vertici corleonesi di Cosa Nostra di ripristinare un rapporto di confronto dialogante, in luogo dello scontro frontale degli ultimi tempi, in vista del raggiungimento di una rinnovata intesa (per una pacifica coabitazione) e con nuovi garanti.

Ma questa proposta di dialogo avrebbe determinato come effetto diretto e immediato non già la cessazione delle stragi, che proseguirono in modo ancora più cruento se possibile per altri diciotto mesi; bensì la sospensione della programmata eliminazione dei politici traditori, il primo dei quali era proprio Calogero Mannino che quindi più di ogni altro avrebbe beneficiato di quella moratoria.

E ulteriore effetto di quella sciagurata iniziativa sarebbe stato quello di rafforzare nei vertici di Cosa nostra il convincimento che la politica della minaccia a forza di tritolo era lo strumento più efficace per trattare con i rappresentanti dello stato, vincendo le resistenza di quanti non fossero disponibili a negoziare con un contropotere criminale.

Sosteneva - e sostiene - ancora la pubblica accusa che il ruolo del Mannino si sostanziò, oltre che nell’istigare la condotta poi da altri in concreto realizzata, nell’esercitare pressioni sul dott. Francesco Di Maggio, all’epoca vice capo del Dap (che lo stesso Mannino ha ammesso, nelle dichiarazioni spontanee rese all’udienza del 26.03.2015 del giudizio di primo grado, di avere incontrato occasionalmente in aeroporto, mentre nel parallelo giudizio d’appello ha negato di averlo mai conosciuto) affinché si adoperasse per un allentamento della stretta carceraria, con specifico riferimento all’applicazione del regime speciale del 41 bis.

Il “ruolo” di Mannino

Ebbene, il giudice di prime cure di questo processo, come s’è visto, ha fatto propria buona parte della ricostruzione offerta dalla pubblica accusa, salvo astenersi, per le ragioni già evidenziate, dall’approfondire e valutare gli aspetti che concernono la condotta contestata al Mannino in relazione alle pressioni che avrebbe esercitato sul dott. Di Maggio.

Ma tale soluzione, sebbene lasci di per sé impregiudicata la questione della penale responsabilità del Mannino, deve ora fare i conti con un giudicato assolutorio che esclude che l’ex Ministro abbia posto in essere le condotte che gli venivano contestate, inclusa quella di avere innescato e ispirato l’iniziativa dei carabinieri del Ros.

Ciò premesso, la prima preoccupazione del p.g. è stata — e non poteva che essere — quella di disinnescare sul piano argomentativo l’efficacia di quel giudicato (“ostile” all’accusa), ossia di neutralizzare le argomentazioni poste a base della pronuncia giudiziale che ha assolto definitivamente il Mannino.

Ecco perché il p.g. ha così puntigliosamente sottoposto ad una rigorosa revisione critica la sentenza della corte d’Appello.

In via preliminare deve convenirsi, con l’ufficio requirente, che il giudicato assolutorio del processo Mannino non è vincolante nel presente giudizio per ciò che concerne la prova dei fatti in esso accertati, nonostante che l’accertamento ivi consacrato sia sostenuto dall’autorità di una decisione divenuta irrevocabile.

Infatti, l’unica preclusione che ne discende è quella sancita dalla regola inderogabile dettata dall’art. 649 c.p.p. che vieta di sottoporre a un nuovo giudizio, e per il medesimo fatto, l’imputato che sa stato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile. Ma nulla vieta di rivalutare i fatti accertati nel pregresso giudicato, e di potere anche pervenire a conclusioni diverse nel separato giudizio a carico di altri soggetti, ancorché imputati del medesimo reato oggetto di quel giudicato.

[…] Resta tuttavia fermo il principio che nessuna preclusione ne discende in ordine all’accertamento dei fatti che interessano ai fini del presente giudizio; e tuttavia diviene particolarmente gravoso l’onere di fornire prove sufficienti ad affermare ciò che una decisione precedente abbia escluso con tutta l’autorevolezza che le deriva dall’essere assistita dalla forza del giudicato; mentre chi abbia interesse ad avvalersene, può confidare nella presunzione di non colpevolezza, suggellata dalla doppia assoluzione.

Anche se, sotto quest’ultimo profilo, la soluzione del giudice di prime cure consentirebbe di bypassare la presunzione di non colpevolezza, assumendo che la prima delle due condotte in ipotesi ascrivibili al Mannino non era e non sarebbe comunque costitutiva di alcuna penale responsabilità, e quindi uscirebbe fuori dal cono protettivo della presunzione di innocenza.

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