L'Unione europea, nelle settimane scorse, si è impegnata a fornire sostegno finanziario a Tunisi per migliorare il sistema di ricerca e soccorso in mare, tradotto: ridurre gli arrivi irregolari dei migranti lungo le coste italiane.

Un memorandum siglato nella capitale tunisina alla presenza della premier italiana Giorgia Meloni e della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Lo scorso 23 luglio invece, sono atterrati a Roma i leader di buona parte dell’area Mena (medio oriente e nord Africa) in occasione della cosiddetta «conferenza sulle migrazioni e lo sviluppo». Nelle foto ufficiali, Meloni appare seduta accanto al presidente tunisino Kais Saied. Quest'ultimo, l’unico ad essere ricevuto al Quirinale.

«Grazie all'Italia per i nostri valori comuni» scrivono sulla pagina della presidenza della Repubblica del paese africano. Nelle stesse ore, l'organizzazione umanitaria «Refugees in Lybia» pubblicava la fotografia di una mamma e di una figlia morte nel deserto al confine tra la Tunisia e la Libia. Distese a terra senza vita, si chiamavano Fati e Marie, morte di sete, di caldo e di mancate cure.

Un'immagine che però non è servita a spezzare il velo di indifferenza dei leader europei né a mettere in discussione gli accordi appena siglati con la Tunisia, dove il tema dei diritti dei migranti è stato il grande assente. Human Rights Watch ha stimato più di 400 persone deportate lungo la frontiera sud, senza beni di prima necessità né cure mediche, in una zona inaccessibile anche alle agenzie Onu.

Nessun membro del governo italiano ha preso le distanze dall'atteggiamento del governo di Saied, responsabile di aver respinto queste persone, soprattutto migranti in fuga dal Sudan in guerra, lasciandole nel deserto, senza preoccuparsi della loro salute e della loro vita.

«Sostituzione etnica»

Il clima di repressione della comunità subsahariana si fa sempre più pesante. Il presidente punta tutto sulla carta populista per mettere a freno il dissenso e il malessere della popolazione interna, sempre più desiderosa di fuga o di condizioni di vita migliori. La ricetta è chiara: se i tunisini soffrono è colpa di chi sta peggio di loro, gli africani del sud, responsabili di crimini e della cosiddetta “sostituzione etnica”.  

Ma in Tunisia la classe media soffre, stritolata dalle difficoltà economiche e dall'impossibilità di una prospettiva per le generazioni future. I trentenni/quarantenni oggi vedono davanti a sé, come unica  prospettiva possibile, la fuga. L'Italia è la terra promessa, l'orizzonte più ambito, a qualsiasi costo.

Poco importa se l'ultimo dato del ministero degli Interni tunisino parla di 901 corpi recuperati in mare tra il 1 gennaio e il 15 luglio 2023. Quasi mille vite spezzate, giovani che provano a fuggire con un barcone e che invece affogano nel Mediterraneo prima di riuscire a trovare salvezza. Una generazione perduta che si affida alla strada illegale come unica ancora di salvezza. Famiglie intere provenienti non solo da contesti di marginalità ma anche con diplomi o lauree in tasca, un lavoro più o meno stabile ma poco remunerativo, insufficiente per sopravvivere.

Una via legale possibile

«Stavamo per partire, eravamo già d'accordo con il trafficante che ci avrebbe portato alle isole Kerkennah, a largo di Sfax, a pochi chilometri da Lampedusa. Poi ho sentito alla radio che forse per noi poteva esserci un'alternativa legale. Ho guardato le mie due figlie e ho pregato mio marito di non farlo. Non siamo più saliti su quel barcone e forse ci siamo salvati la vita». Fatima ha quarant'anni, è una donna determinata, moderna e indipendente.

Lavora in un'azienda dove è responsabile del settore logistica, il marito ha tentato di avviare un'attività che però dopo la crisi sanitaria del Covid è stato costretto a chiudere. È lei a portare avanti la famiglia con molta fatica. Per le sue figlie di sette e nove anni non intravede alcun futuro in Tunisia, vivono a Sfax, capitale economica del paese e luogo preferito dai trafficanti.

Fatima l'alternativa l'ha incrociata attraverso la ong Arcs e al progetto «before you go.» Si tratta di un'idea finanziata con un bando del 2019 tramite il fondo Fami (asilo, migrazione, integrazione) del valore di 10 milioni di euro. Obbiettivo? Creare percorsi di formazione nei paesi di origine e far entrare in Italia legalmente migranti, utilizzando le quote del decreto flussi. Lezioni di italiano, sicurezza sul lavoro, formazione professionale (muratori, agricoltori, mediatori culturali).

Sono più di trecento i ragazzi tunisini che hanno partecipato ai corsi e che possono essere messi in contatto con aziende italiane in cerca di personale. Si tratta di un progetto pilota, è la prima volta che si tenta questa strada che di fatto, concretamente, offre un'alternativa all'immigrazione pericolosa e illegale affidata agli scafisti.

Visti lenti

Prefetture e ambasciate però si trovano a gestire carichi di lavoro importanti, i tempi per l'accettazione del visto di lavoro slittano, la burocrazia rallenta il sistema e gli imprenditori spesso si tirano indietro.

«Progetti come questo potrebbero essere un'opportunità per tanti giovani che cercano un futuro migliore e per tanti imprenditori che cercano dipendenti qualificati. Purtroppo, per funzionare bene devono accompagnarsi a una reale semplificazione delle procedure di ingresso, altrimenti i risultati, rischiano di essere annullati dai tempi di reazione della macchina amministrativa», dice Alberto Sciortino, responsabile di Arcs a Tunisi.

In molti casi infatti viene a cadere la fattibilità, come nel caso delle assistenti familiari o degli operai impiegati in agricoltura, dove il rispetto delle tempistiche è dirimente e gli imprenditori non possono aspettare mesi prima di poter vedere la persona che hanno scelto concretamente disponibile sul campo.

Moltissime le richieste di lavoratori in campo edile, il 27 luglio scorso sono arrivati a Fiumicino i primi tre lavoratori tunisini che inizieranno a lavorare presso un'azienda di Spoleto che li ha assunti con contratto regolare. Tra di loro c'è anche Abdellamin, 36 anni, alle spalle già molta esperienza come operaio nei cantieri.

«Ho fatto qualsiasi tipo di lavoro in Tunisia, ma la paga non mi bastava nemmeno per sopravvivere. Ci sono tante capacità nel mio paese ma mancano i mezzi, siamo perduti. Voglio dare il massimo, anche per tutti quelli che non ce l'hanno fatta.» dice.

La strada intrapresa da questo progetto è quella spesso auspicata dal governo; utilizzare un visto regolare per entrare in Italia avendo già trovato un lavoro e conoscendo le basi della lingua italiana. I numeri però sono ancora piccolissimi, senza una strategia per facilitare gli step di uscita e per ridurre la burocrazia, rimane una goccia nel mare.

Classe media a Tunisi

Cité Jardins  è un quartiere a nord di Tunisi, progettato inizialmente per favorire l'insediamento dei cittadini francesi nei territori appena conquistati nel periodo coloniale. Oggi ci vivono famiglie della cosiddetta classe media: madri casalinghe, padri dipendenti pubblici.

Proprio come i genitori di Wiem, 30 anni e una diagnosi di Sma, atrofia muscolare spinale. In Tunisia per la sua malattia non esistono terapie, né è possibile fare della fisioterapia a prezzi accessibili. La sua vita si svolge dentro le quattro mura di casa.

Le strade mal asfaltate non le consentono di passeggiare con la sua sedia a rotelle e i mezzi pubblici sono inesistenti. La sua laurea? Carta straccia. Weim attende un visto attraverso il progetto «before you go», vorrebbe fare la mediatrice culturale, ha studiato per questo, conosce perfettamente l'inglese, il francese, l'arabo e ora anche un po' di italiano grazie alla formazione.

In Italia per la sua malattia esisterebbe una terapia efficace in grado di realizzare il suo desiderio più grande: avere una vita normale: «I nostri figli erano in piazza dieci anni fa a chiedere libertà e democrazia, abbiamo fatto ogni sacrificio per farli studiare e ora li vediamo tutti andare via. Sogno per mia figlia la vita che desidera, lontana dalla Tunisia che le ha tolto il futuro» dice Samira, la madre di Wiem.

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