Laura Boldrini è orgogliosa di avere «introdotto il tema» della parità di genere alla Camera quando l’ha presieduta, una questione che «non era all’ordine del giorno» quando è arrivata alla presidenza, spiega in questa intervista. 

Ha fatto a suo modo una rivoluzione istituzionale intervenendo sul linguaggio e su diverse norme che nascondevano, nemmeno troppo bene, pregiudizi di genere e atteggiamenti discriminatori radicati nel profondo della nostra società. Lo ha fatto spiegando che nelle scelte lessicali, nelle abitudini irriflesse e perfino negli articoli e nelle desinenze si manifestano prevaricazioni, mercificazioni, gerarchie. 

Ma quando si tratta di commentare l’arbitraria espulsione di una nostra collega, Lisa Di Giuseppe, dalla tribuna stampa di Montecitorio, per la presunta colpa di indossare un vestito che le lasciava le spalle scoperte, Boldrini si riassesta sul registro del decoro e del rispetto istituzionale: «Penso sia necessario nell’abbigliamento avere senso dell’opportunità e sensibilità istituzionale sapendo che ci si trova nel “palazzo della norma”», spiega, premurandosi di aggiungere che «nessuno può dire a una donna come si deve vestire». 

Insomma, la cronista di Domani, che era alla Camera a svolgere il suo lavoro, doveva innanzitutto avere senso dell’opportunità, attenersi a quella che Boldrini chiama una «regola non scritta», dal momento che una norma formale che giustifica l’imposizione non c’è: il regolamento della Camera non impone alcun dress code alle donne, mentre gli uomini hanno l’obbligo di indossare la giacca.

Onorevole, ha letto della vicenda che ieri ha interessato una giornalista di Domani a Montecitorio? Cosa ci comunica?

Partiamo dalla considerazione che la Camera si è scusata e questo mi sembra che risolva l’intera vicenda. Evidentemente c’è stato un errore, proprio perché, in mancanza di regole, ogni persona che accede a Montecitorio è sottoposta a una valutazione individuale. 

Io penso che la libertà di vestirsi debba essere in capo alla donna e solo alla donna. Penso anche però che nei luoghi istituzionali si debba prestare maggiore cura. Chi entra in quei palazzi deve comunque vestirsi in modo consono e adeguato, che per una donna non vuol dire doversi obbligatoriamente mettere la giacca.

Io ho sempre cercato di portare rispetto verso le istituzioni anche nell’abbigliamento. Non sono mai entrata in aula senza una giacca o un cardigan, non solo da presidente, ma anche da deputata. Sta alla libera scelta di ciascuna, ma ci si deve regolare.

A volte mi capita, specie in estate, di vedere delle colleghe, ma anche dei colleghi, vestite in modo a mio avviso eccessivamente casual, per essere in un’istituzione.

Spesso si cerca di indagare come sia vestita una donna…

La regola che mi sono data è di usare un abbigliamento sobrio, che sia rispettoso del luogo solenne in cui ci troviamo a lavorare. Ci sono anche regole non scritte: quando si va a un matrimonio, per esempio, non ci si veste come per andare a fare una gita. E viceversa.

Abbiamo il privilegio di lavorare in un’alta istituzione dello Stato: anche la forma ha un suo peso.

All’interno della Camera lei nota differenze di trattamento tra generi?

A differenza delle donne, gli uomini hanno un dress code: per accedere alla Camera hanno l’obbligo di indossare la giacca, è tassativo. Le donne, invece, quest’obbligo non ce l’hanno. Dunque sta a ognuna di noi capire dove si trova e vestirsi di conseguenza.

Lei non pensa che sia un’umiliazione per una professionista essere allontanata dalla tribuna stampa alla Camera dei deputati, in base non a una norma ma a un giudizio arbitrario sul proprio abbigliamento? 

Questo è stato un errore, non c’è dubbio. La Camera se ne è già scusata. Non va proprio fatto, è stata una modalità sbagliata.

Da presidente della Camera e poi da deputata ha notato negli anni una liberazione dagli stereotipi di genere e dalle categorizzazioni in questa istituzione? 

Quando arrivai alla Camera notai che alle deputate, alle ministre, alle sottosegretarie ci si rivolgeva chiamandole al maschile. Ne rimasi molto sorpresa: in un’istituzione in cui c’era oltre il 30 per cento di deputate, il femminile non veniva considerato. Io chiesi ai colleghi e alle colleghe che in aula e in commissione venisse sempre usato il genere di appartenenza. E allo stesso modo domandai alla Segretaria generale di inviare una circolare, affinché nei resoconti e negli atti parlamentari si usasse il femminile. Non era mai successo prima.

Ho poi voluto allestire la Sala delle donne della Repubblica, le prime donne della Repubblica. Perché nel palazzo non c’erano immagini di donne ma solo busti di uomini. Oltre a questo, ho voluto porre la questione della parità di genere al centro della mia presidenza, organizzando convegni su lavoro, welfare, violenza, rappresentanza di genere nei media e odio in rete. Penso faccia bene all’istituzione mettersi al passo con i tempi e cogliere queste sfide.

Questa semina ha portato frutti o è ancora molto difficile lavorare su questi temi?

Alcuni traguardi li abbiamo raggiunti e non si rimettono in discussione. Ma bisogna essere molto vigili, perché le conquiste non sono mai per sempre. Se non si è pronti a tenere alta la guardia, non ci vuole niente a regredire. Spetta a ogni donna esigere rispetto a tutti i livelli e adoperarsi per le altre.

Su questo tema non ci può essere una delega, è una battaglia che ogni donna deve fare tutti i giorni sul posto di lavoro, in famiglia, con gli amici. E ci sarà un verso cambiamento solo quando ognuna di noi dirà no alle battute sessiste che creano imbarazzo, si ribellerà alle piccole grandi discriminazioni e metterà le proprie risorse a disposizione della causa dell’uguaglianza.

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