A quale metodo di insegnamento grammaticale pensa il ministro? Perché, nonostante tutto, l’insegnamento grammaticale come catechismo non è scomparso e continua anzi a imperare indisturbato nella scuola italiana
«La cultura della regola inizia dallo studio della grammatica. In particolare, è importante trasmettere all'allievo, fin dall'inizio, la consapevolezza del valore della correttezza linguistica e formale, dell'ordine e della chiarezza nella comunicazione», con queste parole il ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha parlato del lavoro che una commissione di esperti sta conducendo nella riscrittura delle Indicazioni Nazionali e delle Linee Guida.
Sono parole che, per chi si occupa di didattica dell’italiano e conosce la storia di questa disciplina, evocano vecchi fantasmi, riecheggiano il monito di Lettera a una professoressa: «Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione». In particolare, le espressioni cultura della regola e correttezza linguistica e formale suonano molto problematiche. Come scriveva Don Milani, infatti, occorrerebbe mettersi intanto d’accordo su cosa sia, questa lingua corretta.
Il ministro, la commissione di revisione delle Indicazioni nazionali, e quanti continuano a invocare LA grammatica, dovrebbero ricordare che la discussione sull’insegnamento grammaticale ha una storia lunghissima, una storia spesso fatta di credenze, di superstizioni, a volte davvero coriacee e dure a morire.
Un insegnamento inefficace
Era il 1955 e sulle pagine de Il Mondo con ironia e polemica Guido Calogero scriveva che l’analisi logica e «il grande studio preparatorio delle proposizioni italiane, necessario a capire come debbano essere tradotte in latino. Che cosa ci sia di “logico” in un’analisi di questo genere, e perché mai debba essere particolarmente efficace per sviluppare l’intelligenza dei ragazzini, Dio solo lo sa».
Negli anni Settanta – a partire da posizioni politiche anche molto differenti – i linguisti, i pedagogisti, gli educatori (persino diversi preti) hanno concordato nell’asserire con forza che l’insegnamento linguistico tradizionale non funzionava.
Il documento simbolo di questo attacco all’insegnamento tradizionale fu pubblicato nel 1975: sono le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica. Redatte da De Mauro, divennero poi il manifesto del Giscel (Gruppo di intervento e di studio nel campo dell’Educazione linguistica, nato nel 1973 in seno alla Sli).
Nella VI tesi, è detto esplicitamente che «la pedagogia linguistica tradizionale, dunque, non realizza bene nemmeno gli scopi su cui punta e dice di puntare. In questo senso, essa è inefficace». Luca Serianni, che era profondissimo conoscitore e amante della grammatica italiana (quindi non un antigrammaticalista), ha ribadito spesso che nelle grammatiche scolastiche la teoria grammaticale – cosi come è presentata – «e poco utile per far riflettere sulla lingua, perché veicola classificazioni di debole capacità esplicativa, o addirittura ricalcate sulla sintassi latina e costrette sul letto di Procuste della grammatica di una lingua strutturalmente del tutto diversa (...)».
Insomma, come ha riassunto qualche anno fa la linguista Maria Luisa Altieri Biagi, non èla grammatica a essere sciocca, ma «il modo di insegnarla»: un allenamento a riconoscere i complementi, a distinguere nomi concreti da nomi astratti, imparare a vedere la regola uccidendo la vita, per parafrasare il maestro della scuola attiva Celestin Freinet.
Grammatica come confederazione
Negli ultimi decenni, grazie ai lavori di tanti studiosi e studiose, si è venuta a definire una funzione dell’insegnamento grammaticale orientata a un obiettivo diverso: lo sviluppo metacognitivo. Pioniera di queste ricerche è stata proprio Maria Luisa Altieri Biagi; mentre uno dei testi che dovrebbe essere conosciuto da chiunque insegni grammatica a scuola è Esperimenti grammaticali della linguista Maria Giuseppa Lo Duca.
L’insegnamento grammaticale dovrebbe essere, in questa ottica, una postura che si assume quando si osservano i fatti di lingua, grazie alla quale si scopre la differenza tra norma e uso, si esplorano gli idioletti di parlanti e scrittori, le variabili sociolinguistiche che diverse comunità selezionano per i propri scopi comunicativi.
Uno dei manuali di riferimento di linguistica e grammatica italiana si chiama, per l’appunto, Le regole e le scelte, di Michele Prandi e Cristiana De Santis.
Nell’ultima edizione Prandi scrive: «La grammatica non è una monarchia assoluta ma una confederazione di territori diversi, retti ciascuno da una costituzione propria. In alcune zone, la grammatica ci impone regole non negoziabili; in altri, ci offre vasti repertori di opzioni all'interno dei quali siamo liberi di fare scelte consapevoli».
Catechismo o addestramento
E allora occorre domandarsi: a quale metodo di insegnamento grammaticale pensa il ministro? Perché, nonostante tutto, l’insegnamento grammaticale come catechismo (Adriano Colombo) o come addestramento (Lo Duca) non è scomparso e continua anzi a imperare indisturbato nella scuola italiana; mentre l’empirismo, la ricerca, la dialettica non hanno mai davvero attecchito, nonostante le Indicazioni nazionali parlino esplicitamente di «riflessione sulla lingua».
Si potrebbe allora pensare che l’operazione di revisione ministeriale vada proprio in questo senso: riallineare i documenti ministeriali con la pratica didattica tradizionale, mai davvero abbandonata. La grammatica come cultura del rispetto delle regole, come ginnastica di obbedienza.
La grammatica può insegnarci le regole, sì, ma le regole del gioco, negoziate storicamente da generazioni di parlanti e che ogni giorno continuano ad essere messe in discussione dalla diffusione di termini, usi, strutture. Perché la lingua evolve, è viva, è dialettica.
La scuola dovrebbe insegnare questo, che ci sono leggi che hanno senso e decreti, invece, che sono solo passeggeri. Così impareremmo che «la scuola è aperta a tutti» non è negoziabile, mentre il voto in condotta, lo studio dell’inno, della bandiera, della bibbia sono solo ideologie passeggere rispetto alle quali una comunità di studenti e docenti può esercitare una scelta, e relegarle ai vocabolari storici, quelli che contengono le parole che non ce l’hanno fatta.
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