Il quarto d’ora di intervista del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, alla trasmissione televisiva Dimartedì su la7 si riassume con una sua frase: «Bisogna che l’Italia si abitui a una Corte Costituzionale che non solo emana ma spiega le sentenze».

È quello che Amato ha fatto, scegliendo questa volta il mezzo della televisione in un talk show di prima serata e nelle scorse settimane lo strumento della conferenza stampa per illustrare le scelte della Consulta nel giorno del pronunciamento sui referendum.

In questa sede ha argomentato le decisioni e sulle dichiarazioni di inammissibilità dei quesiti su cannabis ed eutanasia, pur invitando ad aspettare «le sentenze che spiegano le motivazioni e queste motivazioni saranno oggetto di condivisione o di critica». 

Tuttavia, a domanda sul fatto che il no ad alcuni quesiti abbia ridotto il diritto dei cittadini ad esprimersi, visto anche il grande numero di firme raccolte nella campagna referendaria, ha sottolineato che  «siamo 60 milioni di cittadini italiani e i promotori, anche se hanno raccolto centinaia di migliaia di firme, non rappresentano il popolo. La Costituzione stabilisce dei limiti ai quesiti che è corretto sottoporre ai cittadini». Limiti che la Consulta ha considerato superati dai quesiti inammissibili.

La scelta di un programma in prima serata va esattamente nella direzione che il presidente ha intrapreso sin dall’inizio del suo mandato: rendere la Consulta una voce, che parli soprattutto all’opinione pubblica. «Una scelta in continuità con la linea dei suoi predecessori, a partire da Giorgio Lattanzi, ma anche con le prassi del passato visto che la nostra Corte è stata una delle poche a utilizzare dall’inizio della sua attività lo strumento della conferenza stampa», dice la Angioletta Sperti, associata di diritto pubblico comparato all’università di Pisa e autrice di saggi sulla comunicazione delle corti costituzionali.

A cambiare, nel corso del tempo, sono però gli strumenti comunicativi a disposizione. Ora la Corte si avvale non solo delle conferenze stampa e delle interviste sui quotidiani, ma anche delle trasmissioni tv, dei social media e dei podcast. Con il risultato di un messaggio che si amplifica molto di più grazie ai mezzi di comunicazione che rendono molto più veloce raggiungere i cittadini. 

Sembra definitivamente archiviata, quindi, la linea di pensiero di chi riteneva che la corte, come organo giurisdizionale pur atipico, debba esprimersi solo con le sentenze lasciando agli attori politici strumenti di divulgazione che rischiano di trascinarla nella contesa. 

Il crinale, però, è sottile e il rischio dell’apparire è quello di sembrare alla ricerca di consenso personale. «Ma esprimere il senso del proprio ruolo e i contenuti delle pronunce non significa autopromuoversi o cercare consenso popolare», dice Sperti.

Al netto dello strumento utilizzato, infatti, è emersa l’abilità di Amato nel non tracimare oltre la soglia del dicibile da parte del più alto rappresentante di un organo costituzionale. Per questo sarebbe un errore applicare alla Corte la categoria politica del consenso popolare. 

«Il filo conduttore del suo intervento sono stati i valori costituzionali», spiega Sperti, che analizza così l’interlocuzione che Amato sta instaurando direttamente con l’opinione pubblica attraverso i media: il presidente non si sarebbe mai posto allo stesso livello degli attori politici trasformandosi in uno di loro, ma sta costruendo «il rapporto con l’opinione pubblica attraverso la costruzione del consenso intorno ai valori costituzionali e su questi fa comunicazione».

La differenza è sottile: chi concorre nell’agone politico cerca di orientare l’elettorato secondo le proprie posizioni, mentre la Corte marca la sua differenza dando voce ai valori costituzionali nei quali si deve riconoscere l’intera società civile. 

Difficile dire se questo metterà a tacere i più critici rispetto alla disinvoltura comunicativa di Amato. Certo è che il presidente ha dato segno di voler caratterizzare così i suoi otto mesi al vertice della Consulta, non solo emanandole ma «spiegando le sentenze», anche nei luoghi simbolo del confronto politico in televisione come i talk show.

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