La conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, per annunciare l’esito sul giudizio di ammissibilità dei referendum ha suscitato opposte reazioni: da una parte chi ha plaudito all’apertura della Consulta; dall’altra chi ha letto nell’iniziativa un protagonismo inatteso dell’istituzione. Il piglio di Amato, che in conferenza stampa ha risposto a tutte le domande non lesinando parole e anche aneddoti personali, è rimasto quello di chi per lunghi anni ha ricoperto incarichi politici.

Abile nel gestire la comunicazione – non a caso è il primo presidente della Corte ad avere nel lungo curriculum anche un passato da presidente del Consiglio – ha veicolato non solo le ragioni di merito sulle inammissibilità, ma ha risposto direttamente anche a chi attribuiva alla corte una mancanza di sensibilità nella bocciatura dei quesiti più delicati come quello sull’eutanasia.

L’alternativa – come era stato per l’annuncio dell’inammissibilità dell’eutanasia e dell’ammissibilità di quattro quesiti sulla giustizia – era quella di diramare il consueto comunicato stampa in cui è sempre contenuto anche un riassunto delle ragioni essenziali della decisione. Invece, in seno all’intera Corte è maturata la volontà di una precisazione più esaustiva: gli altri giudici hanno chiesto ad Amato di farsi portavoce pubblico, per spiegare le ragioni di scelte controverse.

E lui lo ha fatto a modo suo, riprendendo quella che lui stesso ha definito «un’antica tradizione della Corte» e valorizzando quello che ha definito un «dovere della Consulta, anche quando non lo ha esercitato»: spiegare le sue scelte all’opinione pubblica.

A rendere eccezionale la conferenza stampa sono stati i quesiti referendari su cui la Corte era chiamata a esprimersi, a cui si è aggiunta però la volontà di Amato di chiarire dettagliatamente come i giudici siano arrivati a determinare l’inammissibilità di alcuni, anticipando le ragioni principali che hanno prodotto la decisione.

La svolta

Cannabis, eutanasia e giustizia sono temi che dividono da mesi il paese, al centro dello scontro politico e culturale: per questo le parole dirette utilizzate da Amato hanno spiazzato chi immaginava che la Consulta si limitasse a dichiarare ammissibili o inammissibili i quesiti, lasciando alle sentenze il compito di spiegare le ragioni giuridiche delle decisioni.

Invece Amato ha mostrato che è terminata definitivamente la stagione dei comunicati stampa secchi e burocratici e che la Corte ha raggiunto la consapevolezza di volersi aprire a una comunicazione più articolata. Quanto all’approccio, ogni presidente della Corte adatta su di sé il ruolo che riveste. Amato ha scelto di farlo a suo modo, ma in continuità con i suoi più recenti predecessori, che hanno dato una progressiva spinta di apertura e impegnato la Consulta a una interlocuzione sistematica con i media. Se si dovesse trovare un punto di svolta, potrebbe essere il 2018 con la presidenza di Paolo Grossi.

Nella sua relazione di fine anno, è stato lui a parlare espressamente della comunicazione come «una delle funzioni istituzionali della Corte», che è chiamata a «interpretare il proprio ruolo di garante anche alimentando direttamente la conoscenza del nostro “stare insieme”».

A quel segnale sono seguite le successive iniziative del “viaggio” dei giudici prima nelle scuole e poi nelle carceri, con i presidenti Giorgio Lattanzi, Marta Cartabia, Mario Morelli e poi Giancarlo Coraggio.

A questo si è aggiunta anche la scelta di aprire dei canali social – da Twitter a Instagram – da utilizzare come veicolo per raccontare passaggi di vita interna della corte che in passato venivano considerati momenti riservati. L’intento comunicativo è quello di applicare anche alla Consulta il principio della cosiddetta accountability, ovvero il rendere conto delle decisioni prese, davanti alla comunità su cui incidono.

I rischi

Non a caso la parola chiave, ripetuta spesso da Amato nelle sue risposte ai giornalisti, è «spiegare». Anche a costo di rischiare di diventare bersaglio di polemica politica. Così è stato, proprio mentre la conferenza stampa era in corso, per le durissime parole di uno dei leader dei comitati referendari come Marco Cappato, che ha definito «la conferenza stampa del presidente Amato al cento per cento politica» e che «ha dato giudizi che puntano a minare la reputazione e la credibilità dei comitati promotori». Conseguenza per certi versi attesa, proprio vista l’onda emotiva intorno ai temi oggetto di referendum e la massiccia mobilitazione per la raccolta firme.

Precedente diverso nel contesto – si trattava della conferenza stampa di relazione sull’attività del 2020 – ma simile nella polemica prodotta, è quello che ha riguardato il suo predecessore Giancarlo Coraggio. Alla domanda sul ddl Zan, allora in discussione, il presidente aveva risposto che «non ho studiato il ddl Zan proprio per non essere chiamato a dare un parere concreto sulle norme. Ma sicuramente una qualche normativa è opportuna». Anche in quel caso, le parole del presidente avevano provocato reazioni politiche e all’interrogativo sull’opportunità del presidente di rispondere alla domanda.

Del resto, a scontrarsi sono da sempre due opposte interpretazioni del ruolo pubblico della Consulta: da un lato quella secondo cui i giudici dovrebbero parlare solo attraverso le sentenze per non portare l’istituzione nella polemica politica; dall’altro quella prospettata da Amato, secondo cui la Corte come organo costituzionale abbia il dovere di spiegare e rendere comprensibili all’opinione pubblica le sue decisioni. Questa seconda linea, che oggi è prevalente, risulta tanto più eclatante però alla luce di questa fase di impasse politica, in cui il parlamento è in difficoltà a prendere posizione su temi sensibili – dall’eutanasia alla riforma del carcere ostativo – su cui la Consulta invece è stata chiamata a esprimersi.

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