Tutto era già scritto. Le prove schiaccianti, le carte che “cantavano”. E così, dopo un processo eccessivamente lungo, è arrivata la conferma giudiziaria (i fatti d’altronde erano quelli che erano e ogni altra decisione sarebbe apparsa quanto meno stramba) che è stato un «ricattatore seriale», un personaggio che «non solo gestiva il potere ma il potere lo creava», l’esponente più in vista di una “mafia trasparente” che ha tenuto in scacco la Sicilia per una decina di anni e che ha potuto contare su una rete di complicità negli apparati dello stato e anche nelle più alte sfere della magistratura. Calogero Antonio Montante detto Antonello, ex vicepresidente nazionale di Confindustria, imprenditore dalle oscure radici e con frequentazioni abituali in ambienti mafiosi, è stato condannato dalla Corte d’appello di Caltanissetta a otto anni, con rito abbreviato, praticamente lo sconto di un terzo della pena.

Verdetto annunciato al primo pomeriggio ma la camera di consiglio è finita quasi a sera. Attesa sfibrante e sentenza bollente, nel caldo africano della Sicilia di questi giorni ma anche per il clima di tensione che ha preceduto l'apparizione in aula dei giudici. Il procuratore generale Giuseppe Lombardo aveva chiesto 11 anni e 4 mesi, in primo grado Montante aveva preso 14 anni. Condannato a 5 anni l’ex capo della security di Confindustria Diego Di Simone e a 3 anni e 3 mesi il poliziotto Marco De Angelis, accusati di accesso abusivo al sistema informatico. Assolto il questore Andrea Grassi.

Una catena di connivenze dentro e fuori le istituzioni, dossieraggi contro gli avversari – tutti quelli che avevano denunciato l’inganno di Antonello Montante e dei suoi compagni d’avventura – lettere anonime, incursioni dentro la banca dati del Viminale, esposti all’autorità giudiziaria come vendette trasversali, archivi segreti da usare alla bisogna. Per intimidire, piegare ai voleri della consorteria.

Grande impostura

Omar Abd el Naser

La sentenza è un altro passaggio che ricostruisce la grande impostura messa in piedi fra il 2004 e il 2005 da un uomo “nel cuore” del boss di Cosa nostra Paolino Arnone e che nonostante ciò è riuscito a diventare il faro dell'antimafia italiana. Ossequiato da presidenti di corte di appello e procuratori generali (era sempre in prima fila alle inaugurazioni degli anni giudiziari), riverito da questori e prefetti, in intimità con ministri dell'Interno come Annamaria Cancellieri che definì Montante “l'Apostolo dell'Antimafia”, o come Angelino Alfano che era così in promiscuità con lui da incontrarlo pubblicamente anche quando era già finito sotto indagine per concorso in associazione mafiosa.

Una stagione avvelenata, affari in nome della legalità, le mani sulla regione siciliana, un potere infetto che anno dopo anno si è diffuso in molti palazzi romani fino a contaminarli. Mafia trasparente, alta mafia senza le facce sconce dei capibastone di borgata, mafia che ha goduto anche del silenzio della stampa per lungo tempo.

Ci sono voluti tre anni di complicatissime investigazioni della squadra mobile e della procura della repubblica di Caltanissetta –sempre controvento per le ramificazioni e la capacità di inquinamento degli indagati – per smascherare Antonello Montante e la sua corte dei miracoli. Poi la prima condanna nel maggio del 2019 della presidente Graziella Luparello a 14 anni e poi questo appello.

Palazzo di Giustizia di Caltanissetta presidiato da un imponente schieramento di poliziotti, carabinieri in divisa e in borghese, una cintura di sicurezza in verità smisurata per il profilo degli imputati, tranne Montante tutti appartenenti o ex appartenenti alle forze dell’ordine.

Davanti all’aula in mattinata anche il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra: aveva annunciato la sua presenza a Caltanissetta e a Caltanissetta è venuto.

Dichiarazione prima del verdetto: «Sono convinto che la forza delle mafie debba essere individuata nella debolezza con cui le istituzioni preposte a combattere le stesse affrontano tale problema. Purtroppo il sistema Montante, attraverso infiltrazioni nell'ambito delle forze di polizia, del giornalismo e della magistratura, ha dimostrato di potere indebolire questa azione di contrasto».

Antonello Montante si è presentato in aula, visibilmente ingrassato, teso, accompagnato dall’avvocato Carlo Taormina, il legale che lo assiste in tutte le vicende dove è rimasto incagliato.

Tempi lunghissimi

Si conclude un processo d’appello decisamente troppo lungo rispetto al primo grado e anche in assoluto, due anni e mezzo. Dodici mesi se ne sono andati per la sospensione dell’attività giudiziaria a causa del Covid e per i certificati medici sfornati a raffica dall'imputato, gli altri diciotto mesi per le udienze che hanno doppiato quelle di primo grado. Processo a tratti assai anomalo.

Per alcune parti civili che si sono scagliate contro i testimoni chiave dell'accusa, facendo in pratica il gioco di Antonello Montante e delle altre difese. Atteggiamento enigmatico per non dire altro. E poi per la conduzione stessa del processo, affidata alla regia della presidente Andreina Occhipinti – a latere Giovanbattista Tona e Alessandra Giunta – e che ha consentito all'imputato scorrerie in aula, ore e ore di tonnellate di fango scaricate sui suoi accusatori e tutto al di fuori dei capi di imputazione contestati.

Se sacrosanto è il diritto alla difesa (a Montante e a chiunque altro avrebbero potuto concedere non cinque udienze per difendersi ma dieci, quindici e pure di più) sproporzionata è stata la corda lunga concessa all'ex vicepresidente di Confindustria, il processo trasformato in un'arena per “punire” tutti i suoi nemici.

In certi momenti nell’aula bunker di Caltanissetta gli imputati sembravano le parti civili e l'imputato sembrava la vittima, gioco degli specchi, la realtà capovolta. Secondo alcune voci, la conduzione del processo pare sia stata oggetto di un paio di audizioni (secretate) in commissione parlamentare antimafia, fra le parti civili c'è chi ha pure manifestato l'intezione di inviare una segnalazione al Consiglio superiore della magistratura per la straordinaria “libertà” concessa dalla presidente della Corte di appello Occhipinti all’imputato Montante.

L’altro processo

Comunque sia andata l’appello è finito e adesso toccherà alla Cassazione. Ma i conti che Antonello Montante deve regolare con la giustizia, dopo che per una dozzina di anni lui si è presentato all’Italia come l’imprenditore siciliano senza paura che per la prima volta sfidava i boss, sono altri e anche tanti.

A maggio si è aperto sempre a Caltanissetta un altro processo, dove lui è sempre a capo di un’associazione a delinquere che di fatto governava la regione Siciliana. Tredici imputati, dall’ex presidente Rosario Crocetta al re della monnezza Giuseppe Catanzaro, dall’ex capo della security di Confindustria Diego De Simone al colonnello dei servizi segreti Giuseppe D'Agata.

Ci sono anche due ex assessori regionali, una è Linda Vancheri, una fedelissima di Montante. E c’è anche il prefetto Arturo De Felice, un ex capo della Dia, la direzione investigativa antimafia, per l'accusa finito nel “sistema Montante” per avere iniziato indagini dal nulla contro cinque imprenditori e giornalisti. In cambio favori.

È ancora in corso invece il processo di primo grado dei coimputati dell'ex vicepresidente di Confindustria che al contrario di Montante hanno scelto il rito ordinario, sono in diciassette. Fra loro, l’ex presidente del Senato Renato Schifani, l’ex direttore dei servizi segreti civili Arturo Esposito, il caporeparto dell’Aisi Andrea Cavacece, siciliani molto noti come l'imprenditore Massimo Romano e il commercialista Massimo Cuva, il colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata, il maggiore della Finanza Ettore Orfanello.

Processo che molto probabilmente sarà unificato con quello appena iniziato a maggio sui traffici e i maneggi in regione, così ha fatto capire almeno il predidente del tribunale. Infine, sulla testa di Calogero Antonio Montante detto Antonello c’è sempre la spada delle indagini di mafia. Da quel gorgo non è mai venuto fuori. I procuratori seguono piste che portano anche a Castelvetrano, il regno dell’uomo invisibile, il latitante Matteo Messina Denaro.

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