Con un recente decreto legislativo il governo ha introdotto, in asserito adempimento della direttiva europea 2016/343, il divieto di pubblicare le ordinanze che applicano misure cautelari personali.

La Commissione europea ci ha dovuto chiarire ciò che era chiarissimo sin dall’inizio e come, su queste pagine si era cercato insistentemente, ma inutilmente, di far presente: la direttiva 2016/343 «non prescrive», ammonisce Michael McGrath, Commissario europeo per la Giustizia, la democrazia e i diritti fondamentali, «limitazioni specifiche per quanto riguarda la pubblicazione da parte della stampa di atti processuali relativi alla fase preprocessuale del procedimento».

La direttiva si limita a prevedere «soltanto che la diffusione di qualsiasi informazione da parte delle autorità pubbliche ai media rispetti la presunzione di innocenza e non crei l’impressione che la persona sia colpevole prima che la sua colpevolezza sia stata provata dalla legge».

Si tratta di un mortificante richiamo che poteva e doveva essere evitato. Difficile attribuire questo passo falso del governo ad inconsapevolezza della improponibilità giuridica del divieto che si intendeva introdurre, peraltro denunciata con fermezza nel corso delle audizioni parlamentari. Al contrario, la strategia di confezionare il discutibile prodotto con pregiata carta europea sembra dimostrare la consapevolezza della sua altrimenti difficile proponibilità.

Niente di nuovo: è il vecchio passepartout del “ce lo chiede l’Europa”, con cui si alloca a livello europeo la responsabilità politica di scelte nazionali di problematica presentabilità.

Al di là della inesistente “matrice” europea, l’introduzione del divieto di pubblicare le ordinanze cautelari per garantire la presunzione di innocenza dell’imputato resta in difficoltà di senso: se ha questa funzione perché tale divieto cessa con il rinvio a giudizio o non nasce neppure se l’ordinanza è emessa successivamente? Forse che con l’inizio del giudizio l’imputato può essere presunto colpevole?

Un problema reale

Beninteso, il problema che ci si proponeva di affrontare con l’improvvida innovazione normativa esiste.

Nel prevalente, comune sentire l’accusato è da sempre ritenuto colpevole: il solo fatto di essere risucchiato negli ingranaggi della giustizia è percepito come inequivoco indizio di colpevolezza. Persino quando gli sgherri di Pinochet trascinarono via, i polsi legati con filo spinato, i ragazzi della guardia del corpo di Allende, per torturarli e ucciderli – ci racconta Sepulveda – «i testimoni che non avevano visto nulla mormorarono: “qualcosa avranno fatto, non per niente li portano via”».

L’argine che il costituente ha cercato di erigere contro questa tendenza introducendo il controistintivo principio per cui «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» (art.27 comma 2 Cost.) ha dato risultati deludenti, anche a causa dell’ odierna narrazione mediatica, che, con l’ eccessivo risalto dedicato ai fatti di cronaca nera e giudiziaria (che secondo l’ Osservatorio europeo sulla sicurezza occupano da noi il 60 per cento delle notizie; in Germania il 18 per cento), alimenta un’impaziente attesa di risultato, accentuando inevitabilmente l’orientamento colpevolista.

Nella “Costituzione vivente” quasi sempre «l’accusato è considerato colpevole sino all’assoluzione definitiva, talvolta anche dopo, se per quel crimine non è stato trovato un colpevole».

Una politica controproducente

Sarebbe un’ovvietà affermare che il deprecabile fenomeno può essere debellato efficacemente soltanto sul piano culturale. Meno ovvio è osservare che la politica legislativa sinora seguìta per contrastarlo sia del tutto fallimentare, per non dire controproducente. Si è pensato di limitare ai giornalisti l’accesso alle notizie processuali, di fatto consegnandoli all’arbitrio dell’autorità che le detiene e alimentando un clandestino mercimonio della notizia, e/o di vietarne la pubblicazione.

Si dovrebbe seguire un orientamento opposto: riconoscere all’operatore dell’informazione il diritto di accesso alle notizie giudiziarie non più segrete e il dovere, ove le pubblichi, di contestualizzarle nella fase interinale cui afferiscono, dando conto della precarietà del risultato che sembrano esibire. In tal modo si privilegeranno i migliori cronisti giudiziari e non, come troppo spesso avviene, i più zelanti trafficanti di notizie ad alta appetibilità populistica.

Le eventuali, perduranti patologie dovrebbero essere giudicate da un’Autorità indipendente per l’informazione giudiziaria e punite con sanzioni reputazionali per il giornalista e per la testata di appartenenza, abbandonando l’attuale propensione a prevedere condanne di natura economica, spesso rovinose per la testata o l’emittente di piccole dimensioni, del tutto trascurabili per gli operatori che possono contare su una robusta struttura finanziaria.

In conclusione: quando si mette mano al diritto di informare e di essere informati, fondamento della democrazia, l’importante è reprimere l’abuso, mai conculcare il diritto medesimo.

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