Il trojan nel cellulare di Luca Palamara è stato la prova regina su cui si è fondata la radiazione del magistrato dall’ordine giudiziario e che ha dimostrato l’esistenza del sistema spartitorio delle correnti. Oggi, quello stesso virus spia potrebbe essere prova esattamente del contrario: cioè che ci sia stata una congiura ai danni dello stesso Palamara da parte dei poteri che lui credeva di saper gestire.

Dal punto di vista concreto nulla cambia: ciò che è stato detto e fatto da parte di Palamara e dei suoi interlocutori rimane una verità storica. A mutare, però, è il contesto in cui questa realtà si è incardinata e soprattutto il movente dietro la fuga di notizie che ha portato all’esplosione dello scandalo.

Tutto comincia con la gestione del trojan da parte della procura. Il virus spia è uno strumento di raccolta delle prove che può essere utilizzato solo nel caso in cui una procura indaghi per particolari categorie di reati, tra i quali quelli contro la pubblica amministrazione, con pena prevista superiore ai cinque anni.

Secondo le regole del codice di procedura penale, le società terze che si occupano della raccolta dei dati devono veicolare direttamente i file alla procura che sta indagando, in server di proprietà dell’ufficio inquirente.

Le anomalie

Nel caso di Palamara, invece, le cose vanno diversamente. Il reato ipotizzato a suo carico è quello di corruzione in atti giudiziari e indaga la procura di Perugia, competente nei confronti dei magistrati romani.

La gestione delle indagini e l’ascolto delle intercettazioni, però, non viene fatta da Perugia ma da Roma: la motivazione è che gli investigatori in questo modo possono ascoltare in diretta le intercettazioni e agire con pedinamenti o altre attività nell’immediatezza, cosa che da Perugia non sarebbe possibile. Tuttavia, nel corso dell’inchiesta è emerso che gli inquirenti capitolini non hanno mai ascoltato subito le intercettazioni ma lo facevano in un secondo momento.

Altro elemento strano: l’accusa a carico di Palamara è di corruzione ma lui risulta l’unico a essere intercettato. I cellulari dei presunti corruttori, in particolare Fabrizio Centofanti, non vengono infettati dal trojan.

Seconda anomalia: l’azienda che si occupa delle intercettazioni, la napoletana Rcs di Duilio Bianchi, non veicola direttamente le intercettazioni sui server della procura di Roma come da prescrizione.

I file passano invece per Napoli, su server privati dell’azienda che sono stati installati addirittura dentro gli uffici della procura di Napoli, all’insaputa dell’ufficio. Da qui, poi, vengono inviati a Roma ma non c’è modo di sapere se nel passaggio sono stati manomessi o ripuliti di qualche contenuto.

Questi fatti, scoperti in un procedimento parallelo a quello di Palamara e a carico di Cosimo Ferri, hanno portato alla deposizione di Bianchi che ha ammesso il funzionamento non secondo prescrizioni dei trojan e l’apertura di un fascicolo a suo carico da parte dei magistrati di Firenze, in cui Palamara è parte offesa ed è già stato ascoltato.

Terza anomalia: dal processo di Perugia è emerso che il trojan nel cellulare di Palamara ha continuato a emettere segnali e mandare dati ai server di Rcs anche mesi dopo il decreto di conclusione dell’attività di intercettazione, fissata per il 30 maggio. Invece, esistono venti file non ancora aperti, datati 8 settembre e che non dovrebbero esistere.

Il 15 giugno termineranno a Perugia gli accertamenti sul virus spia disposti dal giudice. Secondo la difesa di Palamara, le anomalie riscontrate determinerebbero l’inutilizzabilità della prova, che è stata ottenuta senza rispettare la legge. Secondo il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, tuttavia questi elementi sono irrilevanti e che le intercettazioni sarebbero utilizzabili come prove.

Salvare il disciplinare

Questo durissimo scontro sul trojan davanti ai giudici di Perugia, tuttavia, ha poco a che fare con il processo penale. Palamara, infatti, è accusato di corruzione in atti giudiziari perché avrebbe informato l’amico lobbista Fabrizio Centofanti, che gli faceva da “sponsor” per cene e viaggi, dell’andamento di un’inchiesta congiunta delle procure di Roma e Messina.

A sostenere l’ipotesi accusatoria, tuttavia, non sono le intercettazioni ottenute con il trojan ma le dichiarazioni di Centofanti, dunque anche se le intercettazioni fossero dichiarate inutilizzabili l’impianto del processo subirebbe ripercussioni minime.

E allora perché la procura di Perugia si incaponisce nel voler salvare le intercettazioni? Una risposta possibile riguarda ciò a cui fino ad oggi i trojan sono serviti.

E’ sulla base di quelle chat e intercettazioni, infatti, che il Consiglio superiore della magistratura ha istruito il procedimento disciplinare che ha portato alla radiazione di Palamara e su cui oggi si fondano i disciplinari contro l’ex leader di Magistratura indipendente e parlamentare di Italia Viva, Cosimo Ferri e dei cinque togati che erano con loro alla cena dell’Hotel Champagne in cui decisero di dirottare i voti per il nuovo capo della procura di Roma sul procuratore generale di Firenze, Marcello Viola.

Se le intercettazioni venissero dichiarate inutilizzabili nel processo penale per il quale sono state disposte, diventerebbero inutilizzabili anche per tutti i disciplinari.

Non a caso la difesa di Palamara, che ha presentato ricorso alle sezioni unite della Cassazione contro la radiazione, nel corso dell’ultima udienza ha presentato istanza di rinvio, chiedendo che la corte aspetti l’esito degli accertamenti sul trojan prima di pronunciarsi.

Questo perché la procura generale, durante il disciplinare, ha detto esplicitamente che senza le intercettazioni tutto il procedimento non avrebbe potuto essere sostenuto. Niente intercettazioni, niente radiazione dunque. E niente procedimenti disciplinari per tutti i magistrati che sono finiti nella rete delle chat e che oggi attendono il giudizio della sezione disciplinare del Csm.

Anche il Csm si sta convincendo che l’utilizzabilità delle intercettazioni sia in bilico. La sezione disciplinare, infatti, ha accolto la richiesta delle difese di acquisire gli atti relativi ai verbali delle deposizioni di Duilio Bianchi e i verbali degli accertamenti tecnici non ripetibili sul server napoletano.

La decisione è stata presa nell’ambito del procedimento a carico dei 5 ex consiglieri del Csm Luigi Spina, Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli, tutti presenti alla cena all’Hotel Champagne. La procura generale, invece, si è opposta e ha ribadito l'assoluta legittimità delle intercettazioni. 

Il livello politico

Questi i fatti. Esiste poi un secondo livello del problema, che riguarda invece la politica giudiziaria e che rimane nell’ordine delle supposizioni: quella servita a Cantone, che sta conducendo il processo di Perugia a Palamara, sarebbe una “polpetta avvelenata”.

Le indagini e la gestione lacunosa del trojan sono state svolte dal suo predecessore Luigi De Ficchy, tuttavia Cantone si trova a doverle difendere e quello contro Palamara è un processo seguito con grande clamore mediatico: non ci si può permettere che perda pezzi, soprattutto se sono quelli che hanno rivelato il sistema delle nomine pilotate al Csm.

Seguendo questo filo, emergerebbe questa ipotesi: le intercettazioni a Palamara sarebbero servite non tanto a individuare reati da lui commessi, quanto a sabotare il suo tentativo di colpo di mano nella nomina del successore di Pignatone, che all’epoca ancora dirigeva la procura.

Infatti, la fuga di notizie che ha fatto esplodere il caso ha riguardato un evento penalmente irrilevante: la cena all’Hotel Champagne in cui si chiude l’accordo sul nome di Viola.

Grazie alla pubblicazione di quelle intercettazioni la quinta commissione, che già aveva votato per Viola, ha sospeso il voto e lo ha ripetuto un anno dopo, portando al vertice il braccio destro di Pignatone, Michele Prestipino, sebbene con meno titoli e la cui nomina è stata annullata dal Consiglio di Stato il mese scorso.

Non solo: l’affossamento di Palamara e la conseguente crisi dei gruppi associativi di Unicost e Magistratura indipendente ha prodotto il ritorno a capo dell’Associazione nazionale magistrati del gruppo progressista di Area, che ha anche nominato primo presidente della Cassazione e procuratore generale due suoi iscritti.

Proprio grazie ai voti e al sostegno di Area, inoltre, lo stesso Raffaele Cantone è stato nominato a capo della procura di Perugia – una delle procure chiave in Italia, proprio perché competente sui magistrati romani - dopo la sua esperienza fuori ruolo a capo di Anac e dunque secondo i suoi oppositori senza i titoli necessari.

Se le intercettazioni “cadono” e con loro i procedimenti disciplinari, tutta la narrazione su Palamara unica “mela marcia” subirebbe un duro colpo.

Firenze

A riprova del fatto che il processo a Palamara sia un labirinto di specchi, la novità è l’inserimento nella vicenda della procura di Firenze, che è competente per le indagini sui magistrati di Perugia.

Proprio qui il disegno rischia di capovolgersi: l’inchiesta fiorentina “contro” Perugia è per la fuga di notizie del maggio 2019 con relativa pubblicazione di chat e intercettazioni coperte da segreto istruttorio. Ovvero ciò che ha fatto nascere lo scandalo Palamara.

All’origine del fascicolo, le dichiarazioni dello stesso Palamara davanti ai giudici di Perugia, che le hanno trasmesse a Firenze. Oggetto sarebbero i comportamenti di De Ficchy (il procuratore di Perugia che ha aperto l’indagine e piazzato il trojan) e i suoi rapporti con Centofanti, teste cardine del processo contro Palamara.

Non solo, sempre a Firenze è aperto anche un altro fascicolo, in cui parti offese sono Palamara e Cosimo Ferri e vede indagati i vertici della società Rcs. Su richiesta del procuratore Luca Turco, si sta procedendo per l’attività «irripetibile diretta ad acquisire copia delle tracce dell'intercettazione telematica disposta dalla procura della Repubblica di Perugia, compreso i file di log». Tradotto: il pm di Firenze, oltre a identificare per la prima volta Palamara e Ferri come «vittime» è deciso a vedere tutte le carte, individuare i file intercettati oltre tempo massimo e capire che percorso - lecito o illecito – hanno seguito.

Per voler aggiungere un ultimo tassello nel complicato puzzle della magistratura, Firenze è anche la città dove opera il procuratore generale Marcello Viola: colui che più è stato penalizzato dal caso Palamara e che oggi sta provando in tutti i modi a ottenere la nomina a procuratore capo di Roma. Appunto, un gioco di specchi.


 

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