L’ultimo femminicidio in ordine di tempo è avvenuto nel padovano, dove una donna di 56 anni è stata soffocata dal compagno quarantanovenne, che poi si è costituito. Una storia simile alle tante lette nel corso degli ultimi mesi sui giornali – con picchi soprattutto nei mesi estivi in cui la cronaca invade le pagine di siti e quotidiani – ma diversa come è diversa ogni storia di vita interrotta in modo violento.

La violenza di genere e la sua forma più odiosa che sfocia nell’omicidio è ormai considerata un’emergenza nazionale, di cui si conoscono i numeri e anche i connotati ma che rimane coperta da un velo di imponderabilità che la rende un fenomeno criminale tra i più difficili da combattere. «La violenza di genere non è una tragica fatalità o l’esito di contesti degradati. Questo è un giustificazionismo che consente al crimine di riprodursi. Il contrasto ha fatto enormi passi avanti, ma non è per nessuno, in concreto, una vera priorità perché richiede un’operazione di “sradicamento”. Vuol dire andare alle sue radici millenarie, quelle imbevute dell’odio misogino che riempie, con milioni di volumi, le biblioteche del mondo e il nostro sapere, anche giuridico», spiega Paola Di Nicola, magistrata di Cassazione e tra le voci più autorevoli in materia.

La violenza di genere, infatti, ha come scenario principale il luogo apparentemente più esposto e che invece è anche il più impenetrabile: le mura delle case, dietro alle quali si nascondono situazioni di violenza, sopraffazione e disagio apparentemente invisibili agli occhi degli estranei. Per certi versi è un fenomeno criminale anche più complicato da affrontare rispetto ai fenomeni di criminalità organizzata. Di questi ultimi, infatti, è intuibile il contesto in cui proliferano. La violenza di genere, invece, è trasversale ai ceti sociali e ai contesti economici: la subiscono professioniste e casalinghe, studentesse e madri, italiane e straniere.

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«La difficoltà maggiore è quella di individuare i segnali premonitori della violenza, se ce ne sono. Il lavoro del pm diventa quello di entrare in complesse dinamiche endofamiliari, che possono mettere in discussione i normali criteri di indagine», commenta Paola D’Ovidio, che è stata sostituto procuratore presso la procura generale di Cassazione e oggi siede al Csm.

Lo spiega con un esempio pratico: «In casi di violenza di genere, spesso la vittima è anche l’unica testimone del reato, dunque è necessario valutarne l’attendibilità. In un contesto così particolare, però, i normali criteri di valutazione della prova vanno applicati alla luce di dinamiche familiari delicate. Per farlo serve un supporto conoscitivo che impone di andare oltre le generali regole giuridiche. Questo a tutela non solo della vittima ma anche dell’indagato, perchè si tratta di accuse infamanti e vanno verificate nel modo più accurato possibile».

Per questo, con il gruppo moderato di Magistratura indipendente, ha proposto che il Csm apra una pratica proprio per individuare nuovi strumenti e prassi di intervento da mettere al servizio degli uffici inquirenti. Il Codice rosso, il pacchetto di norme approvate nel 2019 per il contrasto alla violenza di genere, «è stata efficace ma non sempre è sufficiente».

La politica

Alla luce di quello che è stato percepito dall’opinione pubblica come un drastico incremento del fenomeno, la politica del governo Meloni ha deciso di intervenire. A inizio giugno, infatti, il consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che dovrebbe rafforzare le norme del Codice rosso e che ora è in discussione alla Camera, dove si stanno svolgendo le audizioni.

Le nuove disposizioni ora in esame prevedono di estendere ai cosiddetti “reati spia” la misura di prevenzione dell’ammonimento da parte del questore e che interviene prima rispetto alla definizione del processo e dovrebbe inibire nuovi atti di violenza o molestia; la velocizzazione dell’emissione delle misure cautelari e dei processi; la previsione dell’arresto in flagranza differita anche sulla base di documenti video-fotografici; la previsione di una provvisionale a titolo di ristoro economico in favore delle vittime anche prima della sentenza di condanna.

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A queste previsioni, le opposizioni e in particolare il Partito democratico ha proposto di introdurre una norma sul consenso, così da chiarire che il comportamento apparentemente disinvolto della vittima non possa essere utilizzato come argomento che escluda lo stupro. «Basta con gli interrogatori finalizzati sempre a provare, anche in sede processuale, che lo stupro non è tale perché in fondo vi era consenso o tacito assenso o addirittura che così era stato inteso da chi lo ha consumato, sulla base delle proprie convinzioni culturali», ha detto la senatrice dem Valeria Valente.

Eppure il rischio anche in questo caso - e come per il contrasto a molti fenomeni criminali – è di pensare che cambiare il codice penale sull’onda emotiva di un aumento del racconto pubblico della violenza di genere significhi risolvere i problemi del contesto sociale e culturale in cui essa si genera.

I dati

Dal punto di vista delle statistiche, nel rapporto del 2022 del ministero dell’Interno, che contiene un focus in materia di violenza di genere, emerge un incremento di omicidi volontari, saliti a 314 rispetto ai 304 del 2021, di cui 124 con vittime donne, in aumento del 4 per cento. La stragrande maggioranza di queste, 102 su 124, sono state uccise in ambito affettivo, 60 proprio per mano del partner o ex partner.

Il femminicidio, tuttavia, è il culmine di una violenza che in molti casi viene preceduto dai cosiddetti reati spia: atti persecutori, maltrattamenti e violenze sessuali sono tra i principali. Tra il 2020 e il 2022, c’è stata una riduzione degli atti persecutori (diminuiti del 10 per cento) e dei maltrattamenti (-4 per cento), mentre le violenze sessuali – che nel 93 per cento dei casi sono denunciati da donne – sono incrementate dell’11 per cento.

Quest’ultimo aumento tuttavia, viene spiegato dalla procura di Roma, deve essere letto alla luce del fatto che l’ordinamento ha ormai previsto di qualificare come violenza sessuale qualsiasi tipo di approccio non consensuale che comporti anche un minimo contatto fisico e che, in anni precedenti, ricadeva invece sotto altre fattispecie di reato. Anche se, fa notare un investigatore capitolino, «l’aumento di casi di violenza deriva anche dalla crescita esponenziale in città della diffusione della cocaina, che ha provocato l’esplosione di molti reati di violenza, spesso prodotti dall’alterazione della percezione».

Proprio al questione dei reati spia, però, rimane fondamentale: i crimini che hanno come sfondo la famiglia e i rapporti affettivi, infatti, maturano in un clima di sopraffazione e abusi quotidiani che spesso non vengono denunciate fino a quando non si trasformano in altro. Questo è l’elemento su cui si impernia il lavoro quotidiano delle forze dell’ordine e della magistratura, in chiave di prevenzione.

Il report, infatti, fotografa un dato generale ma inquietante riferito alle donne italiane: una su cinque dice di aver subito molestie sessuali di qualche genere, perpetrati da conoscenti (21,4 per cento), sconosciuti (20,5 per cento), parenti (18,8 per cento), mentre oltre il 30 per cento è avvenuto in ambiente di lavoro.

L’interrogativo, allora, è come prevenire che una molestia non denunciata diventi poi un reato spia oppure quello più grave di omicidio.

Grandi e piccole procure

Tra i problemi principali, infatti, c’è quello di portare una vittima a denunciare un reato spia, che spesso viene sottovalutato o sminuito. Oppure la vittima teme di non essere in grado di gestire le conseguenze di una denuncia al partner, magari convivente o con cui condivide dei figli.

In questo il Codice rosso ha avuto una funzione di velocizzazione delle procedure con ottimi esiti, differenziati però tra piccole e grandi procure.

La procura di Roma, infatti, viene spiegato che la struttura è centralizzata e ogni mattina le notizie di reato vengono selezionate: quelle che rientrano nel Codice rosso vengono assegnate e trattate entro 24 ore. Questo significa che il pm assegnatario valuta il caso, se sentire o meno la persona offesa e se chiedere al gip misure cautelari a carico dell’indagato, in modo da allentare la tensione intorno alla vittima. Nelle grandi procure – Roma, Milano e Napoli – il Codice rosso è stato implementato in modo efficace perché è stata creata una struttura ad hoc guidata da un aggiunto che si occupa di questo in via esclusiva e anche i nuclei di polizia giudiziaria sono debitamente formati.

Il problema delle grandi città è però quello della capillarità. A Roma, per esempio, la notizia di reato rischia di sfuggire se la vittima arriva a sporgere denuncia in un commissariato molto periferico, in cui il personale è meno qualificato e l’atto si perde nell’ordinaria amministrazione. Ci sono stati casi, infatti, in cui le denunce sono arrivate in procura con ritardo e su sollecito degli avvocati delle vittime, proprio a causa di carenze a livello territoriale.

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Altri problemi, invece, sorgono nelle procure più piccole dove non è possibile creare una struttura dedicata e quindi non c’è un canale privilegiato che si fa carico tempestivamente di una denuncia, scremandola dalle altre. Con il rischio che i tempi si dilatino o che i segnali non vengano tempestivamente colti.

Secondo il rapporto stilato nel 2021 il 10 per cento delle procure – 14 su 138 e tutte di piccole dimensioni – hanno come più grave fronte di criticità «la sostanziale mancanza di attenzione nei confronti della materia. In queste Procure non esistono, infatti, magistrati specializzati in violenza di genere e domestica e i procedimenti della materia vengono equiparati agli altri al momento della loro assegnazione e nella distribuzione del carico di lavoro», con il risultato di poca uniformità interna e assenza di standard nell’affidamento delle consulenze tecniche.

Nella gestione quotidiana, infatti, le prassi cambiano da procura a procura. Un esempio sul territorio è quello della procura di Latina, considerata di medie dimensioni. Carlo Lasperanza, procuratore aggiunto che coordina il pool che si occupa di violenza di genere, spiega che la donna vittima di violenza deve essere «sentita nell’immediatezza e poi riaccompagnata dalla polizia a casa sua, con un controllo e un accertamento concreto che la permanenza sia sicura».

Ovvero che in casa non ci sia anche l’uomo che lei ha denunciato. In caso di pericolo, Lasperanza ha introdotto la scelta di non allontanare la vittima: «La polizia giudiziaria non allontana la donna per portarla in un luogo sicuro, ma allontanerà l’uomo violento con un provvedimento d’urgenza, sottoponendolo a fermo o arresto nei casi più gravi».

Anche a Trento, piccola procura, il procuratore capo Sandro Raimondi ha introdotto la stessa pratica di allontanamento dell’uomo, ma ha anche dedicato particolare attenzione all’esigenza di supporto a magistrati e polizia nella gestione dei casi. «Attraverso un protocollo con la Asl, è prevista la disponibilità tutti i giorni e 24 su 24 di un neuropsichiatra o di uno psicologo, per adiuvare l’ufficio e la polizia giudiziaria nell’esame di minori e di soggetti vulnerabili, vittime di reati di violenza», spiega Raimondi, in modo da affiancare gli inquirenti già nella fase delle indagini preliminari.

Inoltre, con una direttiva ha stabilito che deve essere il «comandante di stazione il referente qualificato per la trattazione dei casi di violenza di genere» e la previsione di assicurare, dove possibile, «la partecipazione di personale femminile in ausilio all’attività investigativa, soprattutto nella parte di audizione dei soggetti deboli, al fine di contenere quanto più possibile eventuali forme id vittimizzazione secondaria e per agevolare le denunce».

I problemi, però, sorgono spesso nella fase successiva alla denuncia: «É in questa fase che sorge la concreato possibilità che l’imputato condizioni le dichiarazioni della vittima con minacce o promesse di denaro, fino anche al ritiro della denuncia». Una soluzione ci sarebbe: stabilire che, se emergono elementi per sospettare pressioni sui testimoni, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pm vengano direttamente acquisite in dibattimento.

«La norma è di difficile applicazione. Andrebbe chiarita, perchè sia applicabile ogni volta che una ritrattazione non appare giustificata». Sempre sul fronte della tutela della vittima, «sarebbe importante prevedere una nuova misura di sicurezza che, alla fine della pena, impedisca l’avvicinamento del condannato alla donna».

Un ulteriore problema è la lentezza dei processi che colpisce anche questi procedimenti, tanto che la Corte di Strasburgo ha più volte richiamato l’Italia. L’ultimo dei quali, come segnalato dal team legale di Differenza Donna, è quello di una donna fuggita di casa con i figli nel 2014 e dopo nove anni si è giunti solo alla condanna di primo grado.

La formazione dei magistrati

Un problema centrale, infatti, oltre a quello dell’endemica carenza di organico, rimane quello della formazione di magistrati e polizia giudiziaria. Per perseguire questo tipo di reati, infatti, serve un supporto conoscitivo e di competenze che esula rispetto a quelle standard richieste all’autorità giudiziaria.

In particolare uno dei temi da attenzionare maggiormente nel lavoro degli operatori – magistrati, carabinieri, assistenti sociali, avvocati – è la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”. Ovvero la domanda, rivolta ad una donna che denuncia una violenza, di cosa aveva fatto per innervosire il marito che la ha picchiata, perché ha bevuto e poi è uscita da sola, come era vestita, perché ha accettato di rivedere l’uomo che la minacciava. Domande a cui ancora troppo spesso vengono sottoposte le vittime in articoli di stampa, ma anche nei presidi statali che dovrebbero difenderle.

Foto Cecilia Fabiano /LaPresse 16-01- 2023 Roma, Italia - Cronaca - Sit -in Fiaccolata di protesta contro la violenza sulle donne sul luogo dove  morta di Martina Scialdone a via Amelia - Nella Foto : LÕiniziativa di sensibilizzazione davanti al ristorante January 16, 2023 Rome Italy - Demonstration against violence against women at the place where she died by Martina Scialdone in via Amelia In the Photo : the initiative in front of the restaurant where the woman were shoted

La Scuola superiore della magistratura si è mossa con corsi e seminari ma con una offerta formativa che la relazione del luglio 2022 della Commissione d’inchiesta sul femminicidio ha definito «nel complesso piuttosto carente». Nel triennio 2016-2018 sono stati organizzati solo sei corsi di aggiornamento, di cui quattro esclusivamente rivolti al settore civile.

La relazione mostra anche che le magistrate hanno frequentato i corsi in numero di gran lunga superiore ai colleghi uomini. In media «il 67 per cento dei partecipanti sono donne», con un tasso di partecipazione complessivo dell’8 per cento tra i pm e del 4 tra i giudicanti. Segno che, anche tra i magistrati, ciò che riguarda le donne – anche se è violenza – viene considerato ancora soprattutto un problema delle donne.

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