In politica spesso si enunciano principi, ma sarebbe sempre bene premettere che valgono «esclusi i presenti». É il caso anche del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che pochi giorni fa – commentando sia il ricorso dei pm contro la sentenza di assoluzione sul caso Open Arms di Matteo Salvini che il caso Garlasco – ha detto: «Niente impugnazione contro le sentenze di assoluzione, come in tutti i paesi civili».

E ancora: «Al di là delle implicazioni politiche di questa scelta inusuale, si pone il problema tecnico. Come potrebbe un domani intervenire una sentenza di condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, quando dopo tre anni di udienza un giudice ha dubitato e ha assolto? La lentezza della nostra giustizia dipende anche dall'incapacità di molti magistrati di opporsi all'evidenza. Rimedieremo».

Parole che hanno fatto subito ipotizzare un nuovo filone di riforma, non nuovo per altro. Nel 2006 ci aveva provato la legge Pecorella a vietare al pm l’appello avverso le sentenze di proscioglimento, ma era stata dichiarata incostituzionale da una sentenza della Consulta del 2007.

Il precedente

Peccato che gli archivi siano diabolici e spuntino sentenze dimenticate. Una in particolare risale al 2004, riesumata dal blog Terzultima fermata, in cui il proponente ricorso è proprio quello che vent’anni dopo diventerà guardasigilli.

Nella sentenza, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso proposto da Nordio, il quale impugnava una sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva dichiarato inammissibile il suo appello, in seguito a sentenza di primo grado che assolveva gli imputati.

Il caso: Nordio aveva querelato il direttore di Repubblica Eugenio Scalfari, insieme a Dario Fo e Franca Rame, per un articolo apparso sul Venerdì nel 1995 in cui si raccontava di un presunto colloquio tra Bettino Craxi e un altro soggetto, in cui diceva che «per quell’affare delle Coop Rosse abbiamo trovato un giudice a Venezia che è del tutto affidabile, meglio fidato». Il riferimento appariva essere a Nordio, all’epoca pm a Venezia.

Le ipotesi di reato erano di omesso controllo sull’articolo e di diffamazione a mezzo stampa, ma la sentenza di primo grado aveva assolto sia Scalfari che Fo e Rame, ritenendo che la conversazione riportata poteva essere considerata «ironica sintesi di quanto già ampiamente pubblicizzato». Condividendo questa motivazione, la corte d’appello di Roma aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello nei confronti di Scalfari proposto da Nordio.

Infine, anche la Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso di Nordio che chiedeva l’annullamento della sentenza d’appello. Al netto della questione giuridica che aveva a che fare con l’interpretazione estensiva del reato di diffamazione a mezzo stampa, un dato emerge.

Nordio, che oggi teorizza per cui il legittimo dubbio del giudice che emerge con una assoluzione in primo grado dovrebbe far cadere qualsiasi ipotesi di ricorso, nel 2004 la pensava diversamente.

Certo, in quel caso lui non rappresentava la pubblica accusa – come i pm del caso Salvini e Garlasco – ma la parte civile. Tuttavia, il principio del legittimo dubbio che dovrebbe frenare qualsiasi ipotesi di ricorso davanti a una assoluzione (nel caso di Scalfari doppia, sia in primo grado che di inammissibilità dell’appello contro di lui) rimane.

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