Tra il successo della riforma della giustizia e la guardasigilli Marta Cartabia c’è un ostacolo che sembra sempre più insormontabile ed è la magistratura. Il terzo potere dello stato, compatto come non era più dallo scandalo Palamara, si è schierato in blocco contro la riforma penale (in attesa di farlo anche sulla riforma dell’ordinamento giudiziario) e lo ha fatto in tutte le sedi possibili. Hanno espresso criticità i gruppi associativi – sia sul fronte progressista che su quello conservatore –, l’Associazione nazionale magistrati e anche i procuratori delle principali procure ascoltati in audizione alla Camera. E la critica più dura arriverà la prossima settimana dal Consiglio superiore della magistratura, che potrebbe depositare parere contrario al ddl, segnando il primo vero contrasto con il ministero della Giustizia.

Proprio questo blocco compatto rischia di rovinare il grande progetto di Cartabia, che contava di approvare la riforma forte dell’appoggio delle toghe, che sta andando a incontrare distretto per distretto nel suo tour delle corti d’appello, iniziato nelle scorse settimane a Milano e arrivato ieri alla terza tappa con Napoli. Il tour aveva l’obiettivo di tessere un filo rosso con i magistrati, presentando le innovazioni della riforma e in particolare quelle che dovrebbero favorirli: la creazione dell’ufficio del processo (una struttura composta da magistrati onorari e tirocinanti che dovrebbero coadiuvare il lavoro dei giudici, in modo da smaltire l’arretrato) ma soprattutto l’assunzione di 16.500 funzionari per tamponare le carenze di organico.

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Invece, al posto degli applausi, la ministra si è trovata davanti alle dichiarazioni bellicose delle toghe: le ultime in ordine di tempo, quelle del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, che in audizione in commissione Giustizia ha parlato della nuova prescrizione come di una riforma che avrà «conseguenze sulla democrazia del nostro Paese», perchè «in alcuni distretti due anni trascorrono solo per fissare l’udienza» e quindi «tanti processi diventeranno improcedibili minando la sicurezza dello Stato». Ecco dunque la maledizione degli ultimi tre governi: la prescrizione, che esaspera il dibattito politico e ora anche la dialettica tra esecutivo e magistratura, nonostante la riforma targata Cartabia sia la sintesi di un lavoro di revisione del testo base prodotto dalla commissione di esperti presieduta dall’ex magistrato e giudice costituzionale Giorgio Lattanzi.

A preoccupare le toghe, in particolare, è la scelta (tutta politica, giustificata dall’impossibilità di toccare la riforma Bonafede) di dividere la prescrizione: sostanziale in primo grado; processuale in appello e cassazione. Tradotto: il processo di primo grado deve rimanere entro i tempi della prescrizione, che poi si interrompe. Negli altri due gradi, invece, i tempi sono fissi: due anni in appello e uno in cassazione (che diventano tre e 18 mesi per alcuni reati gravi), oltre i quali scatta l’improcedibilità, che significa la “morte” del processo per eccesso di durata.

Un meccanismo, questo, che è stato definito dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia «motivo di preoccupazione» perchè «è facile prevedere che in molti casi le Corti di appello non riusciranno a rispettare quei tempi ristretti. L'effetto sarà che andranno in fumo molti processi». La stessa preoccupazione è che è stata espressa anche dal gruppo progressista di Area, che ha chiesto «un ripensamento di questa disposizione, se non si vuole che la maggior parte del lavoro giudiziario in primo grado sia condannato a finire nel nulla». Sulla stessa linea anche i conservatori di Magistratura indipendente secondo cui «la previsione di tempi perentori di durata, decorsi i quali il processo si estingue, costituisce un regime estraneo alla nostra tradizione giuridica» e sono termini «impossibili da rispettare». 

Il rischio per il governo

Le contestazioni specifiche sul tema della prescrizione sarebbero tecnicamente giustificate dai numeri: attualmente solo 19 corti d’appello su 29 riescono a rimanere nei due anni. Tuttavia – sostiene chi appoggia l’impianto della riforma – la riforma va letta per intero e non solo le righe dell’emendamento sulla prescrizione. Il ddl penale, infatti, è stato pensato per snellire la macchina del processo penale attraverso un potenziamento della giustizia riparativa, dei riti alternativi, la semplificazione delle notifiche e il potenziamento dei procedimenti informatizzati, oltre che la parallela assunzione di personale. In questo modo la durata del processo dovrebbe accorciarsi e diventare «ragionevole», senza arrivare alla prescrizione che deve tornare ad essere una patologia processuale. In sintesi: l’obiettivo è ridurre la durata dei processi attraverso un intervento complesso, non salvarli tutti anche se questo significa costringere il cittadino a passare decenni sotto processo perchè la macchina non funziona. E’ la ministra stessa, infatti, a ribaltare il discorso: «Lo status quo non è un'opzione sul tavolo» perchè «innocenze provate dopo 20 anni di processo sono vite distrutte».

Tuttavia, constatano le toghe, il governo sarebbe stato troppo timido anche nella riforma di sistema, stralciando i passaggi più coraggiosi della relazione Lattanzi, che riduceva le ipotesi di appellabilità, allargava le maglie del patteggiamento e quelle dell’archiviazione.

Il rischio, però, è che la bocciatura categorica delle toghe al ddl penale produca l’effetto di impantanarlo, dando sponda al Movimento 5 Stelle (contrarissimo alla riforma della prescrizione), che punta all’ostruzionismo d’aula e ha presentato mille emendamenti in commissione Giustizia. Il che perpetrerebbe la maledizione della giustizia irriformabile perchè schiava di opposte pressioni. A meno che il governo – conscio dell’occhio europeo puntato sulle riforme italiane – non decida di proseguire anche a costo di porre la fiducia.

 

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