Sulla strada per Corleone passiamo sotto la Rocca Busambra, la montagna che è un cimitero di mafia. Dico a Peppe: «Il Corto ha trasformato la Cosa Nostra in una Cosa Sua». Decidere sulla vita e sulla morte degli altri lo fa sentire onnipotente, prigioniero di un delirio, sicuro che costringerà alla resa lo stato. Sulla strada per Corleone ci avviciniamo a quello che è stato riparo per latitanti, il santuario di Maria santissima del rosario di Tagliavia. Mi dice Peppe: «Il Corto ha provocato più danni alla Cosa Nostra di Tommaso Buscetta». Sulla strada per Corleone le nuvole sono spazzate via dal vento ma il Corto per noi, e non soltanto per noi, resta un grande mistero italiano.

Non abbiamo ancora cominciato a scrivere il primo capitolo del libro, abbiamo però capito che Totò Riina è il più atipico e pericoloso padrino che la mafia siciliana abbia mai conosciuto nella sua secolare storia. Sembra forte, fortissimo, invincibile. In realtà, si sta rivelando un “pupo” nelle mani di pupari che tirano i fili. Prima lo manovrano e alla fine lo gettano in una fossa dove verrà sepolto per sempre.

L’ossessione dei Corleonesi

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Il capo dei capi, il libro che ho scritto con Giuseppe D’Avanzo, nasce nel lontano gennaio del 1993 sulla vecchia provinciale che da Marineo scende verso la Ficuzza, querce da sughero, lecci e il casino di caccia che ha voluto in mezzo al bosco Ferdinando IV di Borbone.

Peppe, Giuseppe D’Avanzo, ha già incontrato due o tre pentiti e il giorno prima è venuto a casa mia, all’Acquasanta a Palermo, con quattro taccuini zeppi di nomi, di anedotti, di ricordi su Totò Riina carcerato e su Totò Riina latitante. Io invece sono riuscito ad “agganciare” Tanuzzu, Gaetano Riina, il fratello più piccolo.

Ogni mattina lo vedo in tribunale con un borsone stracolmo di scartoffie - le fotocopie dei mandati di cattura che notificano al Corto dopo il suo arresto - circondato da una folla di giornalisti che lo insegue tempestandolo di domande.

Lui risponde sempre con una frase, sempre la stessa: «Tutti quanti siete non valete mezza unghia di me’ frate». Un poliziotto amico mi dà la soffiata giusta: mi svela che Tanuzzu, ossessionato come ogni mafioso corleonese dalla ricchezza (da nascondere più di ogni altra cosa), viaggia su una malandata Golf che di frequente lo lascia a piedi.

Un pomeriggio lo trovo, a pochi metri dalla Ficuzza, accanto alla sua auto con il cofano aperto. Gli do un passaggio fino in paese. E poi lo rivedo, due o tre volte, nella piazza di Corleone davanti alla caserma dei carabinieri.

Tra un grugnito e un silenzio, faticosissimi da decifrare, una sera si lascia sfuggire la più formidabile spiegazione mai sentita sul pentimento di Buscetta: «È uno che ha viaggiato tanto. È stato a Milano, è stato a Torino, è stato in America, è stato in Brasile.. vitti ù munnu e cci scattìo ù cerveddu». Ha visto il mondo e gli è scoppiato il cervello.

Partendo dal vocabolario pittoresco ma estremamente significativo di Tanuzzu ci siamo inoltrati nell’esplorazione di un ceppo mafioso molto speciale, lontano dalle mollezze dei boss palermitani, distante da ogni precedente forma di mafiosità. Siamo andati alla scoperta della tribù di Corleone.

Mafia costruita in laboratorio

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Una mafia diversa, con una natura eversiva che la distingueva dalla Cosa Nostra tradizionale da sempre abituata a fare accordi con lo stato. Una mafia che non aveva un pedigree (non erano capi i padri né i nonni di Totò Riina o di Bernardo Provenzano o di Leoluca Bagarella) e che comunque aveva conquistato il potere con una guerra lampo che non aveva lasciato sopravvissuti sul campo.

Una mafia - almeno così ci sembrava al tempo a Peppe e a me, e io lo penso così ancora oggi - cresciuta e diventata dominante con l’“aiuto” di qualcun altro. Come se fosse stata concepita in un laboratorio, una mafia violenta progettata per usarla alla bisogna.

Sono passati quasi trent’anni dalla fine della lunghissima latitanza del “capo dei capi”, avvenuta il 15 gennaio del 1993. Sono passati quasi cinque anni dalla sua morte, avvenuta il 17 novembre del 2017.

Della sua cattura nel libro abbiamo dedicato soltanto una riga e mezza, consapevoli già allora di quanto fosse poco credibile la ricostruzione offerta dai reparti speciali dei carabinieri, come poi hanno anche accertato indagini avviate con ritardo e ritrosia dalla procura della repubblica di Palermo. Dopo la sua morte certe mie convinzioni si sono rafforzate.

Nella tomba Totò Riina si è portato almeno due colpe che nessuno nel suo ambiente, proprio nessuno, potrà mai perdonargli. La prima è quella di essersi fidato di “estranei” che poi lo hanno messo nel sacco con le stragi, facendogli credere che fosse lui a condurre il gioco.

E l’altra, ancora più grave, è quella di avere spinto lo stato (che prima di allora non ci aveva mai neanche provato) ad attaccare l’organizzazione criminale più potente del mondo occidentale. Totò Riina è l’uomo che, più di ogni altro, ha contributo al disfacimento di Cosa Nostra. L’ha presa per mano e l’ha accompagnata in un vicolo cieco.
In pochi anni ha scatenato contemporaneamente due guerre - una interna contro l’aristocrazia mafiosa e l’altra esterna contro i nemici delle istituzioni, promettendo ai suoi che avrebbe messo in ginocchio lo stato, obbligandolo a una capitolazione senza condizioni. Le condizioni, consultare per ogni dettaglio gli atti del processo stato-mafia di Palermo, poi ci sono state ma Cosa Nostra corleonese ne è uscita a pezzi.

Dopo i “delitti eccellenti” degli anni Ottanta (dal presidente della Regione Piersanti Mattarella al procuratore della repubblica Gaetano Costa, dal consigliere istruttore Rocco Chinnici al leader comunista Pio La Torre e a tanti, tanti altri ancora), Totò Riina ha assestato il colpo finale nell’estate del 1992.

Prima Falcone, poi Borsellino, prima il cratere di Capaci, poi l’autobomba di via D’Amelio. Due stragi che vengono solitamente assimilate, se ne cita una e poi l’altra come se fosse naturale il collegamento fra le due, ma sono stragi di “segno” profondamente diverso: Capaci che ha effetti politici “stabilizzanti” per l’Italia, via D’Amelio che ha effetti “destabilizzanti”. Il 23 maggio c’è molta mafia, il 19 luglio c’è molto altro.

Fuori dalla mappe mafiose

Da quel momento, dal 19 luglio 1992, Corleone scompare dalle mappe mafiose. Da quel momento Corleone per la Cosa Nostra diventa “il problema”. Una crisi così, lì dentro, non c’è stata neanche nel 1963, dopo le “Giulietta” imbottite di tritolo che saltavano in aria ai Ciaculli e quando centinaia e centinaia di boss furono spediti al soggiorno obbligato lontano dall’isola.

Alcuni fuggirono in Sudamerica, altri si nascosero in Tunisia, qualcuno propose persino di “sciogliere” per sempre la compagnia. È andata peggio trent’anni dopo, disarticolata nella sua struttura militare, nel mirino di una repressione poliziesca-giudiziaria senza precedenti, la mafia sta faticando parecchio per riconquistare la sua natura dopo che Bernardo Provenzano - da latitante - l’ha traghettata in sommersione verso quella che è oggi. In lenta ricostruzione.

Sono anni che prova a darsi un governo senza riuscirci, ogni volta che i boss superstiti provano a ricostruire la Cupola vengono catturati in diretta mentre sono riuniti in summit. E sempre per colpa sua. Per colpa del Corto.

Un mistero da vivo e da morto

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Era un mistero da vivo ed è un mistero da morto. Perché se n’è andato lasciandoci tutto e lasciandoci niente. Sproloqui. Avvertimenti. Mezze verità. Nel camminamento del carcere di Opera dove era rinchiuso, gli hanno messo accanto un “compagno d’ora d’aria” - tale Alberto Lorusso, ufficialmente vicino alla Sacra corona unita pugliese, più probabilmente legato ad apparati polizieschi - che lo ha reso loquace, malleabile. Forse anche troppo.

Con il Corto che parla e straparla: «Io, il mio dovere l’ho fatto. Ma continuate, continuate...qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello».

Divertirsi per Totò Riina significa fare stragi. Totò Riina si agita, erutta minacce, fa il nome del pubblico ministero Nino Di Matteo, uno che «deve fare la fine dei tonni». Si sfoga con quel Lorusso a microfoni aperti: «E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più, perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari».

Messaggi dall’aldilà

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O il vecchio “zio Totò” non c’era più con la testa o sapeva perfettamente che il suo show era videoregistrato. Voleva fare il mattatore sul palcoscenico. Ha continuato per giorni e giorni, per mesi: «Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica...Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa...Se gli va male questo processo lui viene emarginato.. io penso che lui la pagherà pure».

Discorsi a metà. Sui fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Su Vittorio Mangano, lo “stalliere” di Silvio Berlusconi ad Arcore. Su Matteo Messina Denaro, un tempo suo erede designato. Su quella “persona seria” che è il senatore Marcello Dell’Utri. Su Giulio Andreotti e un incontro che ci fu ma «senza bacio». E sull’agenda rossa di Paolo Borsellino «che si sono fottuti». Messaggi dall’aldilà.

Il libro di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo, Il capo dei capi, è stato pubblicato da Paper First, in edicola da sabato 2 aprile con il Fatto Quotidiano.

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