Oggi è il giorno della verità: il consiglio dei ministri arriva il testo della riforma costituzionale sul premierato, frutto del lavoro della ministra Elisabetta Casellati. Dopo l’annuncio e le prime bozze circolate di quella che viene definita una «riforma light» (cinque articoli appena), però, tutti hanno iniziato a fare i conti.

Da un lato i conti politici, per capire in quale campo minato la riforma si infilerà. Dall’altro le valutazioni istituzionali dell’accademia e soprattutto dei costituzionalisti, che tra le notizie circolate hanno individuato alcuni punti critici che potrebbero creare discrasie nello schema costituzionale.

Il metodo La Russa

Dato il fatto che la riforma verrà presentata e che fa parte del programma elettorale del centrodestra, il tema per il governo è quello di capire come poterla portare avanti.

Trattandosi di una riforma costituzionale il procedimento è aggravato: dopo l’iter in commissione Affari costituzionali, il testo dovrà essere approvato con un doppio passaggio sia alla Camera che al Senato. Ma soprattutto dovrà essere approvato in tutte e quattro le letture con maggioranza qualificata dei due terzi per scongiurare il rischio di potere essere sottoposto a referendum.

La storia recente, infatti, insegna che i referendum costituzionali sono la tomba dei governi, anche quelli apparentemente più solidi. Lo ha insegnato Matteo Renzi con il suo tentativo di riforma della Costituzione del 2016: il referendum riuscì a coagulare contro di lui non solo le opposizioni, ma anche una parte del suo stesso partito.

Il rischio, infatti, è che l’oggetto del referendum su cui gli elettori verranno chiamati a votare non si a tanto il contenuto della riforma, quanto il gradimento del governo.

Proprio questo è decisa ad scongiurare in tutti i modi la premier Giorgia Meloni. Il suo governo ha una maggioranza solidissima in parlamento, ma scherzare con la sorte e con gli elettori è una roulette russa da evitare.

I numeri parlano chiaro: i deputati sono 400, e i due terzi sono 268 e attualmente la maggioranza conta 238 eletti, se anche tutto l’ex terzo polo (Italia viva e Azione) si unissero si arriverebbe a 259. Lo stesso al Senato, dove i senatori sono 205 e i due terzi sono 138, con 116 eletti di maggioranza a cui si potrebbero forse aggiungere gli 11 dell’ex terzo polo. In ogni caso i conti non tornano e servirà l’appoggio di almeno una quindicina di deputati e senatori per evitare rischi.

Ecco perchè è da ascoltare attentamente la voce del presidente del Senato, Ignazio La Russa, consigliere di Meloni e insolitamente loquace sul tema nonostante il ruolo istituzionale. «Si dovrà lavorare per fare qualche concessione alle Camere», ha detto a Repubblica, «Certo senza stravolgere il testo, ma per coinvolgere le opposizioni condividere il più possibile, allargare il perimetro del consenso. Per mia parte, farò di tutto per favorire questo processo».

Detto da chiunque altro suonerebbe velleitario. La Russa, però, è un caso a sè: basti ricordare la sua elezione sullo scranno più alto di palazzo Madama. Mancati i voti di Forza Italia (in polemica con Meloni), gli bastarono quelli ricevuti, nel segreto dell’urna, dai senatori di opposizione. In quell’occasione, La Russa era stato capace di raggranellare ben 17 voti dalle opposizioni e, appena eletto, ringraziò «chi mi ha votato pur non facendo parte del centrodestra». Chissà che quella stessa operazione non sia ripetibile anche per la riforma costituzionale: certo sembra improbabile che il trucco riesca per due votazioni al Senato e due alla Camera dove un equivalente di La Russa a fare da mediatore non c’è.

Tuttavia, se anche riuscisse una sola volta, aprirebbe una voragine nell’opposizione e sarebbe l’ennesimo colpo di mestiere politico dell’ex generale di An. Proprio in questa direzione si starebbe lavorando, per cercare – per dirla alla La Russa – di «allargare il consenso». Con la consapevolezza che la riforma costituzionale è un obiettivo di fine legislatura e che, nel breve periodo, si può solo sperare di completare il primo passaggio in una sola camera entro le elezioni europee.

I problemi al testo

Premesso che un testo definitivo ancora non c’è, quanto circolato nei giorni scorsi ha fatto sollevare più di un sopracciglio ai costituzionalisti.

Gli stessi che erano stati chiamati da Casellati in un mega-convegno al Cnel benedetto dal neo presidente Renato Brunetta, stanno analizzando la bozza e fanno notare alcune discrasie.

Una di queste in particolare, se la bozza diverrà definitiva, rischierebbe addirittura di mettere in discussione l’autorizzazione del presidente della Repubblica alla presentazione del disegno di legge al parlamento.

La formulazione del premierato “all’italiana” che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio e il fatto che, in caso di sua cessazione dalla carica, un nuovo governo possa essere guidato solo da un parlamentare della maggioranza elettorale «istituisce una sorta di mandato imperativo in capo ai parlamentari, in palese violazione dell’articolo 67 della Costituzione, che prevede il divieto di vincolo di mandato per i singoli parlamentari ed è caposaldo dello stato democratico e liberale», spiega il costituzionalista Fulco Lanchester.

Il rischio nel toccare la Carta, infatti, è lo stretto rapporto di bilanciamento e di pesi e contrappesi tra poteri e istituzioni. Modificare in modo strutturale, riducendole e attribuendole al premier, le funzioni del presidente della Repubblica e il tipo di vincolo tra potere esecutivo e legislativo aprono a rischi di squilibrio strutturale di sistema. Tuttavia e se Mattarella non bloccherà l’invio alle camere del testo, potrebbe esserci – come da auspicio di La Russa – margine di modifica a livello parlamentare del testo licenziato dal consiglio dei ministri.

 

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