L’anarchico Alfredo Cospito è risoluto nel proseguire lo sciopero della fame, iniziato ormai da oltre 110 giorni, affinché il governo intervenga sul regime previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354/1975) che, com’è noto, comporta una drastica limitazione delle attività consentite in carcere.

Siccome il governo ha più volte espresso la determinazione di non modificare tale norma, può ipotizzarsi che lo sciopero di Cospito sia destinato a proseguire, fino all’esito estremo.

A fronte di questa situazione, è probabile che a breve si porrà un interrogativo che riguarda il piano giuridico, oltre a quello etico. La volontà del detenuto di lasciarsi morire attraverso il rifiuto della nutrizione può essere ostacolata da parte dell’amministrazione penitenziaria?

È lecito che quest’ultima proceda all’alimentazione coatta del recluso, ove ciò sia necessario per impedirne il decesso?

Insomma, considerato che lo stato di detenzione pone il detenuto sotto la custodia di un’amministrazione dello stato, quest’ultima ha il dovere di intervenire sullo sciopero della fame e potrebbe essere reputata giuridicamente responsabile in caso di morte, qualora non lo facesse?

Il tema è se il regime carcerario comporti la compressione del diritto all’autodeterminazione sanitaria della persona privata della libertà.

Va preliminarmente rilevato che Cospito ha sottoscritto “disposizioni anticipate di trattamento” (Dat), definite anche “testamento biologico” o “biotestamento” (l. n. 219/2017).

La legge prevede che, in previsione di un’eventuale futura incapacità di poter scegliere e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte, ogni persona possa dettare le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, esprimendo il consenso o il rifiuto di accertamenti diagnostici, prestazioni terapeutiche ecc.. Cospito ha espresso la determinazione di rifiutare, in caso di perdita della coscienza, l’alimentazione artificiale e altri trattamenti forzati.

Il diritto del detenuto a non curarsi

Il caso Cospito interroga sull’equilibrio tra interessi confliggenti, tutti meritevoli di tutela, dal diritto di autodeterminazione terapeutica alla salvaguardia della vita umana, in una particolare situazione qual è la reclusione in carcere.

L’art. 32 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di tutelare la salute, «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», disponendo inoltre che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», e sempre entro «i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Dunque, l’art. 32 sancisce il diritto del singolo di scegliere se, quando e come curarsi, quindi anche il diritto di non curarsi.

Ai sensi della norma citata, il rifiuto di curarsi può essere superato solo in forza di una legge dello stato che individui lo specifico trattamento da somministrare e, secondo l’interpretazione data dalla Corte costituzionale, a condizione che vi sia una necessità di cura della persona che subisce tale trattamento e di contestuale salvaguardia della salute collettiva (si pensi, ad esempio, all’obbligo del vaccino anti-Covid).

Quindi, la Costituzione prevede il diritto di rifiutare le cure, fino a lasciarsi morire, e solo una legge può comprimere tale diritto, nel rispetto di alcune condizioni.

Occorre, pertanto, valutare se esista una disposizione di legge che possa autorizzare un trattamento sanitario obbligatorio – l’alimentazione artificiale, che è un trattamento di natura sanitaria – nei riguardi di un detenuto che prosegua a oltranza lo sciopero della fame, sancendo che la salvaguardia della vita umana in carcere prevalga sul suo diritto a rifiutare trattamenti forzati in caso di perdita di coscienza, fino alla morte.

La responsabilità dello stato

LaPresse

Una norma dell’ordinamento penitenziario (art. 41) legittima gli operatori dell’amministrazione carceraria – sotto la cui responsabilità si trova il detenuto – all’impiego della forza fisica «per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all'esecuzione degli ordini impartiti», nonché al ricorso a mezzi di coercizione diversi dalla forza fisica «al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto».

Tale norma, pur ponendo a carico dell’amministrazione carceraria l’obbligo di evitare suicidi o atti autolesionistici delle persone che ha in custodia, non le consente di procedere a un trattamento sanitario – qual è l’alimentazione forzata – nei confronti del detenuto in sciopero della fame che manifesti la volontà di rifiutare il cibo a oltranza.

Infatti, questa norma dell’ordinamento penitenziario non sembra rispondere alle condizioni prescritte dalla Costituzione per poter procedere a un trattamento sanitario in forma coattiva: non indica uno specifico trattamento da somministrare né una specifica malattia da curare o prevenire nell’interesse della salute della collettività, considerato che la resistenza del digiunante ad alimentarsi non mette in pericolo altre persone.

La norma citata, invece, si limita a elencare una serie di condotte generiche da contrastare mediante un generico richiamo all’uso della forza fisica o di mezzi di coercizione diversi.

Peraltro, essa prevede l’intervento degli operatori carcerari a fronte di condotte attive del detenuto, e non di una condotta passiva qual è il lasciarsi morire.

Dunque, l’amministrazione carceraria, non essendo legittimata a intervenire coattivamente nei riguardi del recluso che manifesti la volontà di non volersi nutrire e di non voler essere nutrito anche ove cadesse in stato di incoscienza, non potrebbe essere considerata responsabile della sua eventuale morte.

Qualcuno ipotizza che al detenuto che rifiuti il cibo a oltranza possa essere imposto un trattamento sanitario obbligatorio come previsto dalla legge per le persone affette da malattie mentali (l. n. 833/1978, artt. 34 e 35), nel presupposto che il digiuno continuativo per un periodo di tempo rilevante determinerebbe uno stato assimilabile a un disturbo mentale. Ma il presupposto dell’intervento non potrebbe essere dato per scontato, e andrebbe dimostrato in concreto.

L’obbligo dell’amministrazione penitenziaria di tutelare la salute, nonché il bene della vita, dei reclusi in sciopero della fame può considerarsi assolto ponendo in essere alcuni adempimenti stabiliti da una serie di circolari del Dap relative proprio a questa specifica ipotesi: informare il digiunante sulle conseguenze di una eccessiva prosecuzione dello stato di mancata alimentazione; tenerlo sotto costante osservazione e controllo medico per monitorare le sue condizioni di salute; con il protrarsi dell’astinenza, trasferirlo in strutture sanitarie dell’amministrazione penitenziaria.

Il diritto di Cospito di non alimentarsi

Dunque, può reputarsi che – in mancanza di consenso a ricevere un trattamento sanitario, qual è l’alimentazione forzata, nonché di un’apposita norma di legge che lo imponga – il detenuto che rifiuti il cibo a oltranza abbia il diritto di farlo e che l’amministrazione penitenziaria non disponga di una base giuridica idonea a consentirle di procedere coattivamente alla sua nutrizione. Tanto più che lo sciopero della fame nuoce solo a chi lo pratica, e non a terzi.

In conclusione, il recluso resta titolare di diritti costituzionalmente garantiti, qual è quello all’autodeterminazione terapeutica, che non sono affievoliti dal suo stato detentivo, e la somministrazione forzata dell’alimentazione nei suoi riguardi non potrebbe essere considerata legittima.

Pertanto, Cospito è libero di decidere della sua vita, della quale ha disposto in conformità alla legge sulla Dat.

Può sembrare una conclusione cinica, forse inaccettabile. Di fatto, è il riconoscimento dell’affermazione di una libertà piena, probabilmente l’unica di cui dispone chi è al 41-bis. Forse il senso più profondo del digiuno di Cospito è proprio questo.

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