Accanto alle manifestazioni che animano le piazze di mezzo mondo, questa settimana assistiamo alla protesta di una categoria destinata a toccarci direttamente nel nostro quotidiano, quella degli sceneggiatori di Hollywood. Non è uno scherzo: ormai riusciamo quasi più a sopportare di rimanere bloccati per uno sciopero del trasporto pubblico piuttosto che a metà della nostra serie televisiva preferita.

Se già abbiamo inventato il termine “post-binge-watching blues” per definire l’angoscia che ci prende dopo l’ultima puntata dell’ultima stagione, l’idea che i nostri amati personaggi possano sparire sul più bello è davvero intollerabile.

La rimozione 

Viviamo in una società dove non sono più ammesse interruzioni, a cominciare da quella più definitiva di tutte. In un secolo, l’aspettativa di vita media è passata dai 51 agli 83 anni e anche a questa età la morte è vista come un contrattempo evitabile. La nostra modernità ci spinge a non rassegnarci all’esistenza di un limite alla vita, alla giovinezza o alla forma fisica. Dunque, perché accettare che le vicende capaci di appassionarci sullo schermo o in un libro abbiano una fine quando possiamo avere una nuova stagione o un nuovo volume della saga per continuare a sognare?

Non è un fenomeno nuovo se si pensa che anche Dumas scrisse Vent’anni dopo incalzato dai fan de I Tre Moschettieri. Ma oggi poter lottare contro ogni conclusione che ci mette di fronte la vita non è una fantasia, anzi può essere un’opportunità da sfruttare saggiamente.

Un esempio: i migranti italiani del Novecento partivano all’avventura abbandonando i resti di una vita vecchia per scoprirne una nuova; oggi ci trasferiamo all’estero con la consapevolezza che un volo low cost ci permetterà di tornare indietro in poche ore. Non esiste più un luogo per ricominciare, né un’età. Possiamo continuare a lavorare, apprendere e divertirci fino a quando arriverà anche la fine del nostro show, con grande disappunto per chi lo seguiva.

Sembra un paradosso che nel periodo che è stato definito “la fine della Storia” non riusciamo più ad accettare la fine di alcuna storia. Certo, oggi l’asserzione di Fukuyama appare esagerata, ma nel frattempo ci siamo baloccati con l’idea che, avendo raggiunto l’apice del nostro sviluppo sociale, potevamo vivere un eterno presente. Niente poteva davvero terminare, al massimo ci sarebbero state piccole sbavature da aggiustare nel prosieguo della narrazione. Nel privato abbiamo potuto scrivere la nostra vita in capitoli, anziché suddividerla in libri a sé stanti. La laurea, la nascita di un figlio, la pensione non sono più eventi che chiudono definitivamente una parte dell’esistenza, piuttosto il colpo di scena che prelude alla successiva puntata.

Ma tutto questo nasconde un rischio: se non accettiamo che le cose possano avere una fine, allora niente può davvero avere un inizio. È vero che ogni conclusione, che sia della vita, di un progetto o di una speranza, racchiude il dolore della perdita, ma solo elaborando il lutto possiamo gettarcelo alle spalle e programmare una nuova meta. Quella che Nietzsche definiva l’esperienza del tragico, ossia la necessaria liberazione rigenerativa che fa spazio e dà vita a un’opera inedita.

Solo remake

Ora, paralizzati dal terrore dell’ultimo istante, sembra difficile trovare il coraggio di fare un passo in più. Vale per noi, per la società, e per chi la società deve indirizzarla. Così nella politica le parole chiave e le strategie sembrano ripetersi da decenni. Del resto, perché inventarne di nuove se quelle vecchie riescono a rassicurare un’audience consolidata?

Solo che alla lunga anche le saghe migliori rischiano di stancare e allora, ciclicamente, hanno buon gioco le forze che proclamano la fine di una vecchia narrazione e l’arrivo di una nuovo racconto con un nuovo linguaggio. Di solito il loro successo dura finché lo spettacolo inizia, poi ci si accorge che quella che credevamo una trama originale è l’ennesimo “remake”.

© Riproduzione riservata