I giornalisti non sono molto simpatici: molti li considerano una casta affine a quella della politica, anche se i privilegi di un tempo sono svaniti da anni. Neanche i dentisti sono particolarmente amati, però se un combinato di leggi impedisse al dottore con mascherina e trapano di prendere bene la mira forse tutti ci preoccuperemmo.

In Italia fare il giornalista sta diventando impossibile. L’ultimo caso è quello di Gad Lerner, che ne ha scritto ieri sul Fatto Quotidiano: Lerner conduce, come tanti colleghi (me incluso) una settimana ogni tanto la rassegna stampa di Radio3 PrimaPagina. Gli ascoltatori telefonano e chiedono, alle 8 di mattina, risposte sui temi di attualità più disparati, dal fisco alla geopolitica alla scienza.

Lerner, il 19 novembre 2021, ha fatto una sintesi delle vicende sull’Ilva che l’attuale proprietà dell’azienda ha ritenuto diffamatoria e lo ha querelato. Ci sarà un processo a marzo.

Già prevengo i commenti da social: bene così, un giudice deciderà chi ha ragione e se Lerner è stato preciso non ha nulla da temere. Sbagliato.

Sta diventando di moda la minaccia ai giornalisti per quello che dicono in qualunque spazio, dai social alle trasmissioni radio e tv. Ma un giornalista che si esprime fuori dall’azienda editoriale con cui lavora, non ha molta protezione legale.

 Un ospite di un talk show non viene certo difeso dall’avvocato della rete, invece in una testata registrata è responsabile insieme al direttore (e per i danni il direttore lo è con l’editore, insomma c’è una rete di protezione).

Quindi politici e aziende hanno iniziato a denunciare giornalisti che si esprimono in pubblico – vedi Giorgia Meloni contro Roberto Saviano a PiazzaPulita – perché sanno che così devono pagarsi la difesa di tasca propria.

Prevengo l’altro commento: basta dire cose vere e non si rischia niente. Purtroppo non è così, in Italia si rischia di dover pagare risarcimenti per decine di migliaia di euro anche se si dicono o scrivono cose corrette. Ci sono mille variabili che possono spingere il pm prima, e il giudice poi a concludere che anche riportare un fatto incontestabile possa essere diffamatorio.

Quando questa forma di repressione dell’informazione fallisce, arrivano le richieste di oblio, cioè la discreta ma ossessiva pressione sulle redazioni per far sparire dal web articoli sgraditi, in un tentativo di riscrivere il passato, visto che sul web tutto resta per sempre o quasi.

Eppure il diritto di cronaca e perfino quello di critica sarebbero garantiti dalla Costituzione. Non nell’interesse soltanto di chi lo esercita – il giornalista – ma di tutti gli altri: una democrazia sana ha bisogno di un gruppo di professionisti che si dedica a mettere ordine nelle informazioni disponibili e si sforza di far emergere quelle che il potere di ogni tipo vorrebbe tenere segrete.

Diritto al pensiero libero

Corrado Bile, il giudice che a dicembre ha respinto una imponente richiesta risarcitoria nei confronti del Fatto Quotidiano da parte di Eni per una serie di articoli (alcuni dei quali a mia firma), ha scritto nella sentenza: «Il diritto di critica, nelle sue più varie articolazioni (politica, giudiziaria, scientifica, sportiva ecc…) costituisce espressione della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost. e art. 10 CEDU) e rinviene, pertanto, il carattere identitario proprio nell’espressione di un giudizio o di un'opinione personale dell'autore, che non può che essere soggettiva». Cioè, non soltanto è un diritto costituzionalmente garantito riportare i fatti, ma anche inserirli in una cornice di senso frutto di pensiero autonomo.

In Italia però non è quasi più possibile, la crisi del settore editoriale lascia i giornalisti sempre più inermi di fronti alle pressioni esterne (chi si arrende viene ben ricompensato). Per questo non basta invocare, come fa articolo21, la solita legge sulle querele temerarie che dovrebbe esporre a qualche rischio chi denuncia senza fondamento.

Bisogna discutere seriamente se vogliamo una informazione libera e un dibattito pubblico aperto, rimettendo in discussione l’intero articolo 595 del Codice penale.

Aboliamo la diffamazione a mezzo stampa, del tutto, non ci sono più neppure i presupposti per un simile reato: molti account social raggiungono pubblici più ampi di qualunque media senza incorrere negli stessi rischi legali, la credibilità dei giornali che comporterebbe le maggiori responsabilità è minata proprio da queste continue pressioni che impediscono di fare il giornalismo che restituirebbe prestigio agli occhi del pubblico.

L’assetto normativo attuale non protegge la reputazione delle persone più deboli e neppure permette una discussione pubblica ordinata e civile, è soltanto una clava in mano a politici e imprese.

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