Da qualche mese si discute di carenza di educatori e addirittura di chiusura di servizi socio-educativi per mancanza di personale. Una situazione che chiama in causa il Terzo Settore e che ha riguardato, in un primo momento, la regione Lombardia e che si sta estendendo a tutto il territorio nazionale.

Chi sono gli operatori e le operatrici sociali? In quali servizi sono occupati? E perché fuggono dal Terzo settore?

Sono lavoratori e lavoratrici che si occupano, instaurando una relazione educativa, di soggettività disabili e/o con particolari fragilità, in vari contesti, dallo scolastico a socio sanitario.

Il lavoro sociale è esternalizzato

Il lavoro sociale, nonostante l’importanza pubblica che riveste, è esternalizzato e gestito, per lo più, da società e cooperative del Terzo settore; ed è proprio qui che iniziano le difficoltà per i lavoratori e le lavoratrici.

Le cooperative sociali si comportano come aziende: perdono la loro vocazione territoriale e diventando sempre più grandi e competitive per aggiudicarsi servizi pubblici sociali ed assistenziali.

L’esternalizzazione, infatti, avviene attraverso gare d'appalto da parte degli enti locali, come i Comuni e le Asl territoriali, che definiscono l’entità delle risorse stanziate per la gestione del servizio, i termini e le condizioni contrattuali tra committente (ente locale) e affidatario (Terzo settore), e il capitolato d'appalto che stabilisce l’organizzazione del lavoro educativo e fissa una base d'asta del costo di un'ora di lavoro dell'operatore.

Nella maggior parte dei casi è il prezzo ribassato a consentire alla cooperativa di aggiudicarsi la gestione del servizio.

L’operatore sociale si trova così a lavorare in un servizio pubblico a condizioni d’appalto ribassate con forti conseguenze sia in termini di diritti e tutele sul suo lavoro che di qualità del servizio.

L’altro problema è la formulazione dei bandi, molti dei quali prevedono la sospensione del servizio in caso di assenza dell’utente causando così la perdita di ore di lavoro da parte dell’educatore.

La continua perdita di ore è considerata dagli operatori una nuova forma di lavoro a cottimo, un “minutaggio” del lavoro sociale che si concretizza nella compilazione di “fogli ore” che, richiesti dalla cooperativa all’operatore, rendicontano rigidamente l’orario settimanale trasformando l’educatore in un lavoratore ad ore.

Un’ esistenza schiacciata 

Le strategie di risparmio delle cooperative, che consentono anche di ribassare l’offerta economica, sono molteplici e spaziano dall’abuso del permesso non retribuito, alla banca ore, alla mancanza di un piano formativo per gli operatori e, in alcuni casi, addirittura all’assenza di una sede e di figure di coordinamento sul territorio; certo è che il rapporto di lavoro dell’operatore si trasforma così in una corsa ad ostacoli piena di difficoltà da affrontare.

Le condizioni contrattuali unite al meccanismo degli appalti costringono gli operatori e le operatrici sociali a una situazione povera e precaria: un contratto a tempo indeterminato per un educatore non è certo sinonimo di stabilità lavorativa e di sicurezza reddituale 12 mesi l'anno.

Frequente, infatti, è l'uso nel settore del part time verticale annuale, il cosiddetto contratto ciclico, che prevede la sospensione del rapporto di lavoro nel periodo di minor lavoro, che in genere coincide con l’estate, quando molti servizi socio-educativi vengono ridotti o sospesi.

L’operatore sociale diventa, in questo caso, un lavoratore a intermittenza e per il periodo estivo deve cercare soluzioni alternative per procacciarsi un reddito mensile, magari avviando altri rapporti di lavoro nel settore o addirittura in altri contesti lavorativi.

L’operatore si sposta da un utente all’altro alla continua ricerca di ore da accumulare, da una cooperativa all’altra, per aumentare il monte ore di lavoro mensile.

Rischi di bournout

A fronte di un aumento del disagio sociale, dovuto anche alla fase pandemica che stiamo attraversando da oltre due anni, gli operatori e le operatrici sociali devono reggere nel completo isolamento il peso di servizi ai quali vengono destinati sempre meno risorse.

Doppi turni, notti passive, carenza di personale, perdita di ore in caso di assenza dell’utente, banca ore, contratti ciclici, part-time a poche ore sono tutti meccanismi nei quali l’operatore si trova coinvolto e che lentamente soffocano il suo lavoro.

Non pochi lavoratori/trici iniziano quindi a soffrire di burnout e sono costretti a prendersi una pausa, o nei casi più gravi ad abbandonare una professione in cui credevano.

La fuga degli educatori e delle educatrici dal settore è un atto sofferto ma necessario per molti che scelgono di rimettersi in gioco riscrivendosi all’Università perché la maggior parte degli educatori possiede già uno o più titoli di laurea, talvolta sufficienti a farli entrare “facilmente” nei percorsi d’insegnamento.

C’è un esodo dal Terzo Settore di personale qualificato ma in cerca di stabilità reddituale e riconoscimento.

Quali prospettive?

La soluzione immediata sembrerebbe il miglioramento delle condizioni contrattuali di questa categoria di lavoratori a partire da un rilevante aumento della paga base, ma il meccanismo degli appalti espone a estrema flessibilità il lavoro educativo e pertanto la situazione degli addetti al settore non può essere affrontata solamente sul piano contrattuale.

Da alcuni anni operatori e operatrici sociali, organizzati in collettivi e/o aderenti a diverse sigle del sindacalismo di base, avanzano una richiesta chiara: l’internalizzazione della figura educativa, cioè la sua assunzione attraverso la stipulazione di contratti pubblici per inserirla a pieno titolo e in maniera continuativa e stabile nei contesti scolastici e nelle Asl territoriali. 

È una proposta in controtendenza rispetto alle politiche di esternalizzazione dei servizi pubblici degli ultimi 30 anni ma fondamentale se vogliamo servizi di qualità e costruire una società con uguali possibilità per tutte e tutti indipendentemente dalle proprie fragilità.

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