La ricostruzione delle nostre democrazie deve cominciare dal basso. Questo significa cambiare il modo in cui le comunità locali rispondono ai problemi e ai disagi.

Una risposta efficace, nella pratica, potrebbe configurarsi più o meno così: vari rappresentanti delle società e organizzazioni locali – camere di commercio, chiese, associazioni locali, o semplicemente persone che vogliono prendere parte attiva – si riuniscono con l’obiettivo di decidere come possono far fronte alla loro situazione, che è spesso in via di deterioramento. Cercano di elaborare un piano, ad esempio su come trovare nuove forme di impiego laddove quelle preesistenti o tradizionali stanno cominciando a venire meno.

Sfide presenti e future

Attualmente, molte comunità locali non rispondono alle nuove sfide in modo efficace. Un esempio classico di questo problema lo si ritrova nei paesi dell’occidente che si rendono conto che, per poter contrastare il riscaldamento globale, devono ridurre gradualmente le estrazioni di carbone.

È il caso della regione degli Appalachi negli Stati Uniti o del Brandeburgo e dell’Alta Sassonia (la regione della Lusazia) in Germania. Il problema esiste anche nelle aree degli Stati Uniti e della Francia in cui si concentrava l’industria pesante, dove la concorrenza rappresentata da un misto tra le società di recente industrializzazione e l’automazione ha sopraffatto le industrie locali.

Tutte queste regioni sono state devastate da decenni di deindustrializzazione, politiche fiscali neoliberiste e abbandono da parte della politica, fino al punto di ritrovarsi prive delle risorse per rispondere efficacemente alle sfide del presente e del futuro.

A queste comunità mancano non soltanto i mezzi finanziari e l’influenza politica, ma anche le risorse, che spesso sono anche più difficili da reperire, perché non possono essere trasferite da una parte della società all’altra come sta tentando di fare il governo tedesco in Lusazia convogliando enormi quantità di denaro verso la regione.

Le risorse e le competenze a cui ci riferiamo fanno parte, piuttosto, del capitale sociale o della cultura. Industrie come quelle del carbone e dell’acciaio, o quella manifatturiera, hanno dato forma non solo alle competenze e al reddito di grosse parti della popolazione, ma anche alla cultura della regione, ad esempio all’immagine dominante di che cosa significa essere un lavoratore o prendersi cura della propria famiglia.

Con la deindustrializzazione, queste comunità hanno anche parzialmente perso, tra le altre cose, l’autostima o il senso del proprio valore, a livello sia individuale sia collettivo. Spesso di pari passo con la perdita di autostima derivata dal declino economico, hanno smarrito il senso dell’efficacia politica.

I politici hanno predicato il mercato libero globale e la riforma del mercato del lavoro in direzione neoliberista e hanno promesso che i benefici, alla fine, avrebbero raggiunto tutte le famiglie grazie all’effetto “sgocciolamento”. Ma in luoghi come la Lusazia e la cosiddetta Rust Belt degli Appalachi il declino è ormai costante da decenni, e dunque le persone hanno perso la fiducia nel sistema politico, sentendosi sempre più vittime passive di una macchina senza anima. Chi ha la possibilità di trasferirsi nei centri urbani lo fa, mentre chi resta si ritira nella sfera privata.

Di fatto, la comunità locale perde la capacità di organizzarsi e sviluppare nuove idee per progredire. Perde anche la capacità di esercitare efficacemente la propria pressione sui suoi rappresentanti, attivando così un circolo vizioso che si auto-rafforza: l’inefficacia politica delle comunità va ad alimentare e intensificare l’erosione della comunità politica locale già in atto.

Da ciò deriva una sostanziale riduzione della comprensione dei meccanismi del cambiamento da parte degli elettori, di come possano, collettivamente, prendere in mano le redini del proprio destino e avanzare.

Dramma “appalachiano”

È evidente che questo dramma tipicamente “appalachiano” diventerà sempre più comune. Non è in gioco solo il carbone, ma anche il petrolio, ad esempio nell’area estrattiva dell’Alberta.

Il resto del Canada sta diventando sempre più ostile nei confronti degli oleodotti e ciò si deve, in parte, alla consapevolezza dei pericoli che rappresentano per l’ambiente quando si verifica uno sversamento, e in parte per l’idea generale di doversi allontanare dall’energia proveniente da fonti fossili.

Allo stesso tempo, queste aree post-industriali continuano ad allargarsi a causa della concorrenza dei paesi in via di sviluppo e dell’automazione, in particolare con i nuovi e strabilianti progressi dell’intelligenza artificiale. L’erosione delle comunità locali, come vedremo, ha un impatto profondo sui sistemi politici delle nostre democrazie attuali.

Prima di affrontare la questione di come la ricostituzione delle comunità locali potrebbe giovare al sistema politico generale, è necessario esaminare approfonditamente la situazione di partenza. Quali contorni assumerebbe una ricostruzione dal basso della democrazia in comunità come quelle della Rust Belt, degli Appalachi o della Lusazia? In che modo la ricostituzione delle comunità locali accrescerebbe la loro capacità di gestire i rischi delle società in via di deindustrializzazione? Quale apporto darebbe al rinnovamento della democrazia come sistema politico su scala più ampia?

Processi esterni e interni

Questo tipo di auto-organizzazione è già una realtà in molte comunità (si veda, ad esempio, Friedman 2018; si vedano anche le recenti iniziative lanciate negli Stati Uniti nell’ambito delle economie locali: ad esempio il Local economy framework della Business alliance for local living economies), ma abbiamo bisogno che siano molte di più e, come nel caso di regioni tipo la Lusazia o la Rust Belt, in genere è necessario partire cercando di capire come avviare e favorire il processo dall’esterno quando ce n’è un bisogno estremo eppure non si innesca.

Ad esempio, un governo può stabilire di dover chiudere una miniera di carbone e cercherà di portare la comunità locale dalla propria parte su questa misura, che è dettata dall’urgente lotta al riscaldamento globale.

È una sfida impegnativa. Innanzitutto, richiede di individuare gli abitanti del luogo che stanno già ponendo le domande cruciali e di mettersi in contatto con loro: vale a dire, per continuare con il nostro esempio, quelli che si rendono conto che il carbone non potrà essere per sempre una fonte di impiego e che la regione ha bisogno di una soluzione economica alternativa che possa generare posti di lavoro. In secondo luogo, queste persone devono incontrarsi (o essere messe in contatto tra loro).

Poi comincia il difficile lavoro di capire quale potrebbe essere questa alternativa, ed è qui che gli input e le informazioni forniti dalla comunità locale diventano essenziali.

Dall’esterno potrebbe arrivare qualche buona idea riguardo alle possibili vocazioni economiche alternative per la regione, ma queste non possono decollare se non incontrano il favore della comunità locale. Non è solo questione di cosa promettono economicamente: il settore, il tipo di produzione o di fornitura di servizi proposti devono conciliarsi con le competenze e le capacità della regione, oltre che con la sua identità.

Ad esempio, uno dei grandi ostacoli che si pone davanti a qualsiasi alternativa all’estrazione di carbone nella zona della Lusazia, nel Brandeburgo, in Germania è il forte senso dell’estrazione del carbone come identità storica, con la sua immagine di lotta vittoriosa contro gli ostacoli e le difficoltà – e persino di eroismo – che circonda la vocazione dei minatori di un’aura potente. (Qualcosa di simile lo si può ritrovare nella regione degli Appalachi, ad esempio nella Virginia occidentale; e Trump lo ha sfruttato nella sua campagna).

La ricerca di una soluzione – una vocazione che sia economicamente promettente in relazione alla società più estesa, ma che allo stesso tempo possa essere espressione della comunità stessa – è un compito che non può essere svolto né esclusivamente dall’interno né esclusivamente dall’esterno.

L’animateur

È a questo punto che una figura al di fuori della comunità che abbia esperienza di processi di dibattito e formazione del consenso può essere una risorsa importante. Una persona di questo tipo dovrebbe avere (più o meno) un’idea di quali potrebbero essere alternative realistiche, ma il suo compito sarebbe quello di facilitare la discussione, esplorando varie possibilità alla ricerca di opzioni significative, che possano incontrare il favore della comunità.

In sintesi, questa figura avrebbe la funzione di quello che in francese è noto come animateur e avrebbe bisogno di competenze particolari, analoghe a quelle che sviluppano gli etnografi: la capacità di ascoltare con attenzione e alla fine arrivare a comprendere le peculiarità della situazione, e i termini e i punti di riferimento delle identità locali.

La definizione di queste particolarità può richiedere di coniare termini non ancora disponibili nelle discipline consolidate delle scienze sociali. Il riconoscimento delle differenze richiede un certo tipo di sensibilità, e anche il potere dell’espressione di trovare/riconoscere le parole giuste, i termini chiave.

Se pensiamo alla situazione tipica che le comunità locali si trovano ad affrontare quando un datore di lavoro importante se ne va, possiamo arrivare a concepire la necessità di organizzare dal basso la comunità, così com’è impegnata a fare l’Incourage community foundation negli Stati Uniti. Torneremo su questa organizzazione più avanti. 

Incontro e discussione

Di cosa c’è bisogno per questo genere di organizzazione dal basso della comunità? Innanzitutto di alcuni dati sull’ambiente sia esterno sia interno, come le nuove possibilità economiche eventualmente praticabili per la regione e un inventario delle competenze e capacità della popolazione locale: quelle già possedute e quelle facilmente acquisibili.

Questo, però, non basta. In secondo luogo, le persone devono esprimere i propri bisogni e chiarirsi le idee sulle proprie aspirazioni o su cosa vorrebbero fare idealmente. Questi sono, anzi, elementi costitutivi o determinanti per il primo punto appena esposto.

Ma non è sufficiente ricevere tali informazioni dall’esterno. In terzo luogo, devono essere raccolte dialogando con le persone interessate. Alcune aspirazioni emergeranno solo attraverso lo scambio, e solo le persone interessate possono identificare gli obiettivi comuni attraverso il dialogo.

Questo tipo di incontro e discussione aiuta a generare uno scopo comune, essenziale per progettare il futuro della comunità, creando, allo stesso tempo, la percezione di essere tutti dalla stessa parte, superando le differenze e generando fiducia. Tutti devono non solo essere ascoltati ma anche sentire di essere ascoltati.

Questa modalità di discussione, una volta che ha cominciato a funzionare, può creare i presupposti per la propria espansione e il proprio consolidamento, e diventare così il motore di una ricostruzione dal basso della democrazia.

Quattro mattoncini

Una volta che le persone fanno fronte comune in questo modo, può avvenire un cambiamento importante, del quale distinguiamo quattro diversi aspetti:

1) Implica un mutamento esistenziale della propria posizione. Dal sentire che, come comunità, siamo vittime di forze potenti fuori dal nostro controllo come le “élite globaliste” o i “freddi tecnocrati” o la concorrenza sleale degli stranieri, arriviamo a vederci capaci di prendere l’iniziativa, di fare qualcosa per modificare la nostra difficile situazione. Di conseguenza, l’emergere di una comunità deliberante, della “politica” nel significato attribuitole da Hannah Arendt, genera nella comunità locale una coscienza invigorente di agentività e possibilità collettive.

2) Nello stesso tempo, il fatto di dover unire le forze con altre persone di organizzazioni, fedi religiose, vedute e persino convinzioni politiche diverse ci spinge ad ascoltarci a vicenda, dal momento che in gioco c’è la necessità di risolvere qualcosa insieme a loro. Non possiamo restare passivi e semplicemente criticarle o demonizzarle. Il contatto diretto, in genere, mitiga la reciproca ostilità basata su stereotipi. Pertanto, le comunità deliberanti creano una solidarietà e una fiducia nuove e inclusive tra i partecipanti.

3) Quando facciamo fronte comune, apriamo anche nuove vie alla creatività. Potremmo anche arrivare a generare quella che viene denominata «innovazione radicale». La tesi di Cea e Rimington è che le soluzioni realmente innovative spesso non vengano alla luce da processi di stampo verticistico che si svolgono a porte chiuse, ma da processi inclusivi che fin dall’inizio prevedono la partecipazione alla pianificazione e alle decisioni di un buon numero e di un’ampia varietà di persone coinvolte nell’attività o nella comunità, includendo quelle le cui vite ne subiscono i condizionamenti o gli effetti (Cea-Rimington, 2017).

L’idea di «creare innovazione radicale» attraverso processi co-creativi riflette elementi dello stesso proposito evidenziato al punto 1, vale a dire un riallineamento delle conoscenze e delle motivazioni, di una visione più chiara e dei poteri condivisi che la circondano. In particolare, anche le innovazioni tecniche sembrano emergere più facilmente dallo scambio sereno e co-creativo tra persone dai retroterra eterogenei (Meier-Comte, 2012).

4) Una volta superata la fase di discussione comunitaria e delineato un piano, ad esempio, per trovare nuove vie d’impiego o modalità di riqualificazione dei lavoratori, o nuove tipologie di servizi alla comunità, la nostra posizione come gruppo è sensibilmente cambiata. La nostra interpretazione e comprensione della situazione, i nostri interessi e obiettivi, e anche le nostre motivazioni, i nostri valori e la nostra visione, si sono allineati.

Ora siamo nella posizione di sapere che cosa dobbiamo esigere dalle alte sfere del governo – del governo centrale, da un lato, e da quello dei singoli stati negli Stati Uniti, delle singole provincie in Canada o dei Land in Germania, dall’altro. Non solo sappiamo cosa esigere, ma, in virtù del fatto di avere un piano basato su un forte consenso a livello locale, abbiamo inevitabilmente maggior peso politico.

I rappresentanti eletti per la nostra zona, a livello sia statale (o provinciale) sia federale, saranno fortemente incentivati ad ascoltare, o almeno a tenere conto in qualche modo di questo piano. Una volta riusciti a stabilire un contatto reattivo, sentiamo di avere più potere, perché abbiamo più potere.

Per il suo potenziale nell’allineamento degli obiettivi, delle conoscenze e delle motivazioni, la ricostruzione delle comunità locali deliberanti è sia una modalità di organizzazione, sia un mezzo di mobilitazione politica.

Da un lato, un’azione comunitaria efficace richiede questi quattro mattoncini come presupposti per il cambiamento: far incontrare le persone, condividere le informazioni, arrivare a una nuova comprensione, creare insieme nuove conoscenze, stabilire obiettivi comuni, e via dicendo, richiedono una base minima preesistente costituita da questi quattro elementi.

Ma dall’altro lato, una volta posati, questi mattoncini si sosterranno da soli, e genereranno persino una propria dinamica di espansione, perché sono risorse che non si riducono quando impiegate in un’azione comunitaria efficace; questo uso, anzi, le accresce.

Charles Taylor è professore emerito di Filosofia alla McGill University di Montreal. Nel 2007 è stato insignito del premio Templeton e nel 2008 del premio Kyoto per il suo impegno nel campo delle scienze umane. Ha pubblicato studi sulla modernità tradotti in tutto il mondo. Il saggio che l’ha reso famoso uscito in Italia è “L’età secolare” (Feltrinelli, 2009). Il testo che qui pubblichiamo per gentile concessione delle Edizioni centro studi Erickson, è il primo capitolo del volume “Una nuova democrazia: come i cittadini possono ricostruirla dal basso”, che ha come autori Charles Taylor, Patrizia Nanz e Madeleine Beaubien Taylor, e che uscirà nel gennaio 2022. 

Traduzione a cura di Maria Chiara Piccolo

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