Di fronte al progetto dell’autonomia differenziata si moltiplicano le prese di posizioni realistiche, secondo le quali sarebbe preferibile non enfatizzare le conseguenze negative di una riforma non solo inevitabile ma anche necessaria. Queste prese di posizione vengono da tutte le parti.

Ne fornisce un autorevole esempio Carlo Cottarelli. In una sua recente intervista il senatore del Pd ci tiene a sottolineare che vi sono delle false minacce che vengono evocate a proposito della riforma in questione. Esse riguarderebbero soprattutto l’ordine economico, per cui una delle conseguenze più gravi sarà il consolidamento delle diseguaglianze tra sud e nord a causa della maggiore prossimità territoriale della gestione delle risorse fiscali (le famose tasse che devono restare dove vengono versate). Cottarelli ci rassicura: quel che ci attende sarebbe nient’altro che una risistemazione delle competenze all’interno del perimetro costituzionale, senza nessuna potenziale secessione dei ricchi.

Le conseguenze “differenziate”

Proprio negli stessi giorni mi è capitato di leggere alcuni dati tratti dal rapporto 2021 sulla finanza comunale della Fondazione Ifel che conviene evocare. In un certo senso negli ultimi dieci anni i comuni sono stati loro malgrado un “laboratorio” di quell’autonomia che alcune regioni ora rivendicano.

Sia sufficiente ricordare che, mentre nel 2010 le risorse standard dei comuni provenivano dal prelievo tributario locale per il 39 per cento mentre i trasferimenti statali erano del 61 per cento, nel 2019 il rapporto si è del tutto rovesciato: l’84 per cento di queste risorse proviene dal prelievo fiscale locale e il 16 per cento dai trasferimenti ministeriali.

Ovviamente è stato previsto un meccanismo di perequazione, ma lo stato ha smesso di finanziarlo affidandone la responsabilità agli stessi comuni. Una sorta di autonomia differenziata verticale, in cui l’alto abbandona il basso e i meccanismi correttivi vengono lasciati agli enti periferici, coi risultati fallimentari e sperequativi che tra poco vedremo.

L’imposizione di un’autosufficienza fiscale tramite il congelamento dei trasferimenti statali è stata una delle tante conseguenze dell’Austerity, che ha giustificato un decennio di tagli dei trasferimenti statali e sottoposto i bilanci comunali a vincoli finanziari stringenti. Ma non basta l’Austerity a spiegare il valore politico di questo rovesciamento fiscale.

Di fatto negli ultimi dieci anni i comuni sono stati le cavie su cui sperimentare quella che è ormai non solo una dottrina fiscale ma una vera ideologia morale. È curioso che il decennio cui si riferiscono questi dati parta dall’anno di pubblicazione del libro di Ricolfi Il sacco del nord. Saggio sulla giustizia territoriale.

Libro che rappresenta ancora un manifesto – ricco di dati, di giudizi e, forse, di pregiudizi – che intende letteralmente giustificare (il sottotitolo del libro è eloquente) quel progetto di secessione che fino allora veniva guardato con diffidenza. Ciò che pareva ingiusto viene adesso rivendicato come giusto. Ciò che pareva eversivo diventa ora necessario per porre fine al disordine del nostro paese. La secessione diventa autonomia.

Questo rovesciamento delle fonti di finanziamento della finanza pubblica locale ha costretto i comuni ad applicare in anticipo proprio il principio fondamentale per cui l’autonomia differenziata ci viene proposta come ricetta salvifica: l’idea che una politica fiscale sia più efficace in quanto si definisce autarchicamente in rapporto al residuo fiscale specifico di un territorio. Ecco, mi pare che, dopo dieci anni dalla sua applicazione alla finanza comunale, si possano misurare gli effetti economici che quest’idea ha sortito. La risposta che arriva dal rapporto Ifel sembra inequivocabile.

Alla fine di quel decennio aumenta il divario tra i comuni “poveri” (quelli con minore capacità di spesa) e comuni “ricchi” (che possono spendere di più). E i comuni che più di tutti soffrono di questa riduzione stanno, guarda caso, al sud. Al nord solo il quattro per cento dei comuni presenta una condizione di disavanzo del bilancio. Al sud questa criticità riguarda il 39 per cento dei comuni.

Insomma, la sintesi è presto detta: le politiche fiscali orientate dal principio che ispira l’autonomia differenziata e imposte dallo stato ai comuni non solo non hanno ridotto le diseguaglianze strutturali ma le hanno accentuate, scavando ulteriore divario tra “enti relativamente ricchi arrichitisi ulteriormente” e “enti relativamente poveri impoveritisi ulteriormente”.

L’unità nazionale

Qualcuno dirà che non possiamo prevedere il futuro affidandoci semplicemente al passato. Può darsi. Ma di certo rimuovere quello che è stato un laboratorio fallimentare di autonomia applicata agli comuni non mi pare molto saggio.

Allo stato attuale l’unico esempio che abbiamo ci dimostra che il principio autarchico serve ad arricchire i ricchi e a impoverire i poveri, non il contrario. E forse l’onere della prova dovrebbe essere di coloro che invece la pensano diversamente e ci rassicurano contro ogni evidenza.

A meno che la questione non sia quella di spostare i limiti del “territorio” a cui dobbiamo applicare l’esigenza morale di una giusta distribuzione delle risorse. Ciò che è giusto in uno spazio non è detto sia giusto in un altro. E con quale criterio decidiamo quale sia lo spazio entro cui è legittimo fare i conti con giustizia? Fino a prova contraria, questo spazio è indicato dalla Costituzione sotto il principio della “unità nazionale”.

Se noi scomponiamo quest’unità, finiremo col non vedere più il legame che c’è tra i territori che si arricchiscono sempre più e quelli che si impoveriscono sempre più. È il modo migliore per acquietare la propria coscienza da parte di un pezzo di Paese: non affrontare seriamente la questione del Sud, ma rivendicare che tutto sommato tale questione non è cosa che lo riguardi più. No, decisamente non mi sento rassicurato.

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