Silvio Berlusconi ama riproporsi come uomo del futuro, ma è il passato la sua chiave più autentica. Conta poco quel tratto moderato, un po’ posticcio, che gli piace adottare negli ultimi tempi. E per carità di patria evitiamo di far contare quanto dovrebbe l’intollerabile indulgenza verso Vladimir Putin manifestata ieri a Napoli. In realtà è la storia che riassume le persone e pone un limite alla loro capacità di reinventarsi.

Ora, per quanto mi riguarda, non posso far finta di essere un estraneo. Sono stato per qualche mese vicepresidente di un governo Berlusconi. E per un tempo più lungo, in quegli anni, un suo piccolo ma credo non proprio irrilevante contestatore e antagonista. Due cose che mi sembrano improbabili, oggi. Tutte e due (la prima più della seconda, a dire il vero). Ma così dice la storia, o almeno la cronaca, e dunque occorre tenerle fede.

Non farò conto allora che la mia parola possa essere neutra. Non lo è, non lo può essere, non vorrei che lo fosse. Ma al netto delle sorprese, degli scarti, delle innovazioni vere, di quelle fasulle, c’è un filo logico che attraversa tutta l’esperienza politica di Berlusconi e che dovrebbe almeno metterci al riparo dall’ingenua attesa di colpi di teatro e rovesciamenti di senso. Che non ci saranno, e che forse non ci possono essere.

La Seconda repubblica

Berlusconi è stato il padre fondatore della Seconda repubblica, sagomata intorno ai tanti che facevano il tifo per lui e agli altrettanti che lo avversavano con la stessa passione – solo cambiata di segno. Da magnate della televisione ha portato in politica molto più spettacolo di quanto ve ne era prima. Da imprenditore del calcio, vi ha portato molto più tifo di prima. Da leader politico ha insistito su questo stesso registro. Così ha polarizzato su di sé amori, odi, passioni, controversie, come nessuno nel Dopoguerra aveva mai né voluto né potuto fare.

Per il ceto politico di prima, quello cresciuto all’ombra dei partiti di una volta, è stato un usurpatore. Anche se ne ha portato in salvo una parte cospicua e ha sempre voluto richiamarsi ad alcuni dei padri fondatori. Ma credo che in cuor suo di quel ceto, di tutti noi, o quasi, avesse una opinione niente affatto generosa.

Personalmente, l’ho conosciuto nell’anticamera di Antonio Bisaglia (ex ministro Dc ndr), tanti e tanti anni fa. L’ho visto amichevole e lievemente ossequioso verso un potente dell’epoca. Ma si capiva già allora che lui si sentiva il sovrano di un altro regno. Che magari con la politica scendeva a patti, e all’occorrenza pagava dazio. Con la dovuta deferenza. Ma anche con un certo orgoglio per il proprio mondo e le proprie radici.

Misurarsi con la politica

Un dirigente socialista di rara intelligenza, Roberto Cassola, osservava a suo tempo che i due pilastri della Seconda repubblica erano due imprenditori, uno privato e l’altro pubblico. E cioè, spiegava, due signori che la politica l’avevano vista da fuori ma non da lontano. I capi di due grandi lobby, senza che la parola suoni offensiva per nessuno dei due.

Vista da dentro, però, la politica era un’altra cosa. E con quella cosa Berlusconi si è misurato con fatica e con impazienza. A modo suo, però. Mentre quelli di prima coltivavano la misura, la prudenza, la pazienza, insomma tutte le virtù di un sapere antico e desueto, lui è stato il re della dismisura. Sempre convinto di sé, della sua posizione ombelicale. E sempre infastidito da tutti quei richiami alla felpata cautela che pure a volte risuonavano anche vicino al suo orecchio.

In tutti questi anni Berlusconi si è portato in spalla quella sua lettura, titanica ed esagerata, dell’animo umano. Illuso di poter sempre fare la differenza e quasi incredulo verso tutti quelli che la differenza la misuravano in centimetri e non in chilometri. E dunque, al fondo insofferente verso la stessa idea della politica – che è invece quasi sempre una fatica certosina e quasi mai un lampo improvviso.

Il conto della sua ambiguità

Il giudizio storico verrà, e ci sarà da farvi i conti. Ma si può dire che Berlusconi sia stato – insieme – l’amico e il nemico del populismo italiano. L’amico senza volerlo, il nemico senza poterlo. L’amico senza convinzione, il nemico senza possibilità. Un’ambiguità tutt’altro che innocente, che ora gli presenta il conto.

Egli si è fatto largo, forte anche di quel sentimento ansiogeno che cominciava a serpeggiare ben prima di lui (e delle sue televisioni) ma che lui stesso ha finito per cavalcare con spregiudicata leggerezza. Poi però deve essersi accorto che a lungo andare quello stesso sentimento poteva diventare una belva difficile da domare. E così credo che in questi anni più recenti abbia cercato e stia cercando di tirare le redini del suo mondo. Senza riuscirci, peraltro.

Oggi, appunto, egli sembrerebbe invocare ricette di buonsenso e quasi tentare di porsi al di fuori e al di sopra della mischia. Peccato che quella invocazione avvenga ben oltre il tempo che il fato gli aveva concesso. Nel vederlo barcamenarsi tra appelli alla prudenza destinati a venire poco ascoltati e richiami alle armi per i quali manca la forza di un tempo, verrebbe quasi da solidarizzare con le sue buone intenzioni.

Peccato appunto che quando forse quelle intenzioni avrebbero potuto fare la differenza egli avesse in animo la conquista e non la convivenza, lo strappo e non la cucitura. Come se fosse stato concavo e convesso, ma solo con sé stesso.

La fatica di un’impresa comune

Ha avuto dalla sua un grado di popolarità di cui nessun leader della Prima repubblica ha mai potuto godere. Ma ha preferito “surfare” su quell’onda, sfruttandone il momentaneo beneficio, piuttosto che usare di una circostanza così favorevole per attuare quei cambiamenti strutturali di cui il paese aveva bisogno e per i quali faceva mostra di essersi proposto.

Il problema è che per operare davvero tutte quelle trasformazioni sarebbe stato necessario instaurare un clima di collaborazione tra le strutture politiche e sociali del paese. Chiamare a raccolta le forze in nome della rivoluzione liberale, dell’apertura dei mercati, della meritocrazia, di un cambio di passo.

Impresa difficilissima, ma mai neppure abbozzata (come dimostra tutta la produzione legislativa degli anni, chiamiamoli così, del consenso). Sarebbe servito un patto di sistema tra le forze che allora più contavano. Ma quel patto implicava costi tali da non farglielo sembrare redditizio. Così, la fatica di un’impresa comune venne scambiata a buon mercato con il il vantaggio di una posizione di parte.

In realtà a Berlusconi quel plebiscito quotidiano, quel referendum che quasi ogni giorno veniva (e ancora viene) celebrato intorno alla sua figura piace assai. Cosa che lo ha indotto a non rendersi conto che proprio quella polarizzazione intorno a sé sarebbe stata a lungo andare la sua rovina, o almeno il segno della difficoltà che oggi sta attraversando. Sperava sempre di convincere, e più ancora di sedurre, i suoi avversari. Senza ascoltarli, però. E senza avvedersi che proprio questa illusione, e questa pretesa, sarebbero state l’origine del suo declino.

Umanità non banale

Per quattro anni ci siamo trovati, per così dire, sullo stesso pianerottolo. Lui era presidente del Consiglio, io ero segretario dell’Udc. La maggior parte delle cose che io dicevo a lui non piacevano, e viceversa. In una conferenza stampa a palazzo Chigi, seduto accanto, dissi che bisognava trovare il modo di scegliere il leader con una procedura democratica, lasciando spazio anche a chi, come il sottoscritto, non condivideva la sua guida. Fu la punta più acuminata di un dissenso di cui le cronache dell’epoca registrarono qualche segno – e che oggi ricordo senza nessuna animosità.

Un paio d’altre volte capitò di passare il segno, a me e a lui. Un giorno si lasciò andare a dire che se continuavo così (e il “così” era in tutte le cronache di quel tempo) avrei visto a mie spese il trattamento che mi avrebbero riservato le sue televisioni. Lo disse e se ne pentì. Dalle sue televisioni non ebbi nessun riguardo, ma devo dire anche nessun colpo basso. E dai suoi giornali qualche graffio ma nessuna aggressione. La macchina del fango era di là da venire, e del resto io non offrivo argomenti per suscitarne le attenzioni.

Ma devo confessare che ogni volta che gli muovevo un’obiezione lui era come ferito da un dissenso personale. E facevo fatica a ripetergli che a dividerci, in quel caso, era la politica, e tanto bastava. Un giorno, anni dopo, tornai sull’argomento e gli dissi che si poteva non condividere la sua politica pubblica senza vituperare la sua persona privata. Berlusconi, secondo me, non è stato un buon leader per il paese. Ma è stata una persona dotata di una umanità non banale. Ed forse per questo che una parte non irrilevante di italiani ha continuato a credere in lui anche quando i conti del suo bilancio pubblico viravano decisamente verso il rosso.

Ho visto Berlusconi adulato ben oltre i suoi meriti e denigrato ben oltre le sue colpe. Credo che la storia gli restituirà una dimensione meno estrema, nel bene e nel male. Da parte mia, dopo quegli anni di alti (pochi) e bassi (di più) tra noi due, penso sia giusto che i toni si facciano più sfumati, rispettando le zone d’ombra a cui ciascuno di noi ha diritto. E oggi che lo vedo ancora affannarsi per marcare un’influenza politica che non è più quella di prima confesso che la sua tenacia quasi mi affascina. Disapprovandola, s’intende.

Ogni uomo di spettacolo sa bene che le ultime battute che pronuncia sono quasi sempre le più importanti. A patto però che ci sia una trama, e che quella trama abbia un esito davanti a sé. Temo invece che per Berlusconi la conclusione sia solo un eterno e vano ricominciare da capo. Senza cambiare sé stesso, mentre tutto intorno a lui è cambiato troppo anche per lui.

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