La rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della repubblica è senz’altro una bella notizia. Mattarella ha esercitato il suo primo settennato con un profondo rispetto del dettato costituzionale, nell’alveo di Carlo Azeglio Ciampi, governando processi delicatissimi sempre con estrema attenzione alla forma e alla sostanza della Costituzione, ed abbandonando talune scelte di dubbia legittimità introdotte dal suo predecessore (come il rinvio delle leggi con riserva o la nomina di Ministri con contestuale comunicato stampa di presa di distanza).

Non si può quindi che gioire della conferma di Mattarella. E tuttavia questa rielezione, come è stato ampiamente spiegato pure su questo giornale, rappresenta il definitivo de profundis per il sistema partitico attuale e per i presunti leader che ne sono a capo.

Mattarella non voleva essere rieletto. Lo ha detto in tutti i modi, anche agendo di conseguenza; da professore di diritto costituzionale, ha ricordato come l’articolo 85 della Costituzione, pur non ponendo un esplicito divieto di rielezione, imponga al Presidente uscente di rinunciare ad un secondo mandato per non trasformarlo in una sorta di “Re repubblicano”, al potere per quattordici anni consecutivi – più del triplo del mandato del presidente degli Stati Uniti d’America.

La prima versione dell’articolo 85, approvato nella II Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, prevedeva, in realtà, il divieto di rielezione. Fu Palmiro Togliatti a chiedere di eliminarlo perché quel divieto, in situazioni emergenziali, avrebbe potuto privare il Paese di quell’unica persona in grado di unire le principali forze politiche.

Anche Aldo Moro era di questo stesso avviso: intervenendo contro il divieto di immediata rieleggibilità, sottolineò la necessità di non ingessare il testo costituzionale e di consentire di rieleggere il Presidente uscente qualora vi fosse una situazione di particolare, drammatica, inaspettata e imprevedibile crisi istituzionale.

Su questo si fonda la rielezione di Giorgio Napolitano ma non anche quella di Sergio Mattarella: nove anni fa, quando Napolitano venne rieletto, il Paese era nel pieno di una crisi economica senza esclusioni di colpi, con speculazioni mondiali che stavano succhiando ogni linfa vitale alle nostre istituzioni e ai nostri mercati; vivevamo proprio quella situazioni di crisi cui Moro aveva fatto riferimento in Costituente.

Oggi la situazione è completamente diversa: la presenza di Draghi al governo, l’uscita dalla pandemia, la riconquistata solidità economica e reputazionale anche sui mercati internazionali, dipingono un contesto stabile in cui gli unici ad essere in crisi sono i parlamentari con la loro paura di perdere il seggio al prossimo giro.

È innegabile, infatti, che chi ha votato Mattarella fin dalla prima votazione (al netto di alcune personali eccezioni), lo ha fatto per paura delle possibili conseguenze derivanti dal passaggio di Draghi al Quirinale. Quei 300 e oltre parlamentari che, in contrasto con le indicazioni dei propri capi-bastone, hanno votato Mattarella in terza votazione, hanno dato un segnale affinché tutto cambiasse senza cambiare nulla, in puro stile gattopardesco.

Il de profundis dei partiti è nato, quindi, in questo Parlamento. La situazioni complessiva, non più emergenziale, avrebbe, infatti, consentito ai partiti di esprimere un nome nuovo e di eleggere un altro capo dello Stato. Invece, in cinque giorni – che sono a tutti sembrati cinque mesi – i partiti, succubi della paura dei parlamentari, hanno dimostrato di non esistere più e i loro leader si sono mostrati per quello che sono: presunti giganti dai piedi di argilla.

Queste elezioni, infine, hanno fatto emergere una visione della politica ottocentesca con lo sterile dibattito tra il politico di professione e il tecnico. L’idea che la politica si faccia solo nei partiti è morta e sepolta. Dire, ad esempio, che una donna, come Paola Severino, impegnata da tempo nella formazione delle persone più deboli, nella riabilitazione dei detenuti meritevoli, nell’assistenza legale ai bisognosi, non è una politica è un errore madornale. Lo stesso vale per Marta Cartabia che, per anni, con i suoi libri e i suoi insegnamenti ai più giovani, ha fatto politica, trasmettendo i valori per l’uguaglianza, la giustizia sociale, la libertà. Se non sono politici loro, chi lo sono?

Con la rielezione di Mattarella, i partiti sono morti; la politica no. Occorre ripartire da queste personalità, estranee al sistema partitico, per tornare a dare speranza al paese.

© Riproduzione riservata