Molti giornali in questi giorni hanno un paio di interviste con o uno speciale su Carlo Calenda. Un ritratto. Si assomigliano un po’ tutti, con qualche tentativo di arguzia in più, nel commentare il segno zodiacale, l’album di famiglia, lo scarno curriculum politico, e le foto ricorrenti: quella del film per la tv Cuore con la regia del nonno Luigi Comenicini in cui fa la parte di Bottini, e quella di profilo a pancia nuda in bella vista a bordo piscina con un cigno in sottofondo…

Di Calenda sappiamo molto, anche più di quello che vorremmo sapere in un certo senso, perché è lui stesso a raccontarcelo, a scandire le sue giornate – le sue ore, spesso – su Twitter, a reinterpetare la sua infanzia, la sua adolescenza, la sua formazione come esemplari.

La domanda che dovremmo farci allora non è quindi sull’oggetto politico in questione: cos’altro ci attira sapere o capire? Qual è il mistero che cerchiamo nell’uomo in Lacoste blu?

La questione interessante sta invece nell’interesse in sé che suscita Calenda, nel suo essere una macchia di Rorschach di questa fase politica. Cosa proietta nei commentatori, negli spettatori la sua presenza costante, la sua visibilità fuori scala?

Le due narrazioni polari

Foto LaPresse

La singolarità di Calenda è quella di essere essenzialmente bipolare, non ovviamente nel senso di una definizione clinica (che è appunto irrispettoso persino azzardare, nonostante una delle reazioni più comuni ai suoi comportamenti è quella di rubricarle come dettati da disturbi psicologici se non psichiatrici), ma nel tentativo di tenere insieme due narrazioni polari.

Calenda si descrive nell’arena pubblica perennemente come due figure opposte: superadulto e superbambino.

È lui stesso a raccontare la sua paternità molto precoce, sedici anni (una figlia oggi più che trentenne, avuta con la segretaria del compagno della madre) e la necessità di crescere in fretta: le scuole private giustificate dal dover prendere il diploma, il sostegno di Luca di Montezemolo nel trovare un lavoro il prima possibile.

Ma dall’altra parte lui stesso a postare sui social qualche giorno fa il video inviatogli dalla moglie che lo istruiva su come caricare la lavatrice e commentato da lui stesso: «Uno cerca di convincere gli italiani che saprebbe governare il paese. Poi arriva tua moglie e dopo averti spiegato venti volte come funziona la lavatrice, ti manda un video perché non si fida. Crozza salvami tu».

Come prendere coerentemente due narrazioni così opposte? Come tenere insieme il patto voluto, celebrato, firmato il 2 agosto di alleanza con il Partito democratico e la decisione sofferta di rompere quello stesso patto nemmeno una settimana dopo, senza aver avvertito nessuno?

Calenda contiene questa contraddizione in sé che è evidentemente ipnotica per un elettorato orfano di ideologie ma soprattutto alla ricerca di una legittimazione a una confusione epistemica. Non so che pesci pigliare io; per fortuna c’è qualcun altro che sta come me se non peggio.

Ecco un 49enne che continuamente si racconta come il competente, il superadulto in un mondo popolato di caciaroni inaffidabili, e che al tempo stesso fa il guastafeste, rompe i patti, compulsa twitter, si ingarella in discussioni infinite con i troll, pubblica video scemi, sbraca. Non c’è un Calenda vero e un Calenda falso, uno maggiore e uno minore, il sovrano e il guitto.

Queste due facce di Calenda, questa doppia narrazione è quello che lo rende interessante, e in qualche modo – paradossalmente – credibile, più del suo tentativo, anche quello goffo, di tenere insieme elementi socialdemocratici e elementi liberali di destra in nome di Guido Calogero o dei fratelli Rosselli.

La sua credibilità è nel non essere credibile, ossia nel dare sollievo a chi può immedesimarsi in lui e likarlo o persino votarlo e sentirsi sollevato rispetto alla deresponsabilizzazione politica. Che posizioni prenderà? Con chi starà? Romperà appena eletto?

Se ne frega del ruolo per cui l’ho votato? La campagna elettorale è l’acqua in cui una personalità del genere può nuotare con gusto, sperando che la resa dei conti arrivi più tardi possibile. I video di Calenda in macchina alla scoperta delle periferie romane di un annetto fa non sono la versione over50 dei video di Scuola di botte?

Lo specchio Calenda

Eletto in parlamento europeo dopo aver conquistato mezzo simbolo della coalizione di sinistra, il suo lavoro politico da Bruxelles cos’è stato? Nove mesi di campagna elettorale per Roma, dopo non essersene mai interessato, e dopo la sconfitta di nuovo il deserto dell’interesse, la rinuncia a qualunque forma di intervento pubblico. Ogni fase euforica prelude a una fase disforica.

È sbagliato interpretare il comportamento politico di Calenda alla luce di categorie storiche come il trasformismo, che prevede passaggi lunghi, sinuose mediazioni, che riguardano davvero la trasfigurazione di biografie politiche: gli esempi più recenti, come Gennaro Migliore o Luigi Di Maio stanno a testimoniare questa malmostosa coerenza di fondo animata dall’ambizione. Il caso di Calenda è di altro tipo. Si guarda in lui come in uno specchio, sperando di essere vittime dello stesso incantesimo.

Poter essere per sempre duplici: adulti e bambini, competenti e scemi, superaffidabili e slealissimi, borghesi e cafoni, raffinati e cazzoni. Sarebbe davvero stimolante cercare di riconoscere se questa figura antropologica della scena italiana abbia degli ascendenti o addirittura delle tradizioni, magari innestate tra loro: dai vitelloni al generone romano. Sicuramente è una versione del maschile eterno italiano: mammone, guascone.

E davvero sarebbe interessante leggere la performance pubblica di Calenda e confrontarla con la matrice poetica del nonno, Luigi Comencini, a partire dai suoi film anni settanta come Lo scopone scientifico, e interrogarsi se questa postura sia legata in qualche modo a una reazione alla stagione di lotte politiche e di liberazione. Le contraddizioni della borghesia che non mettono mai in crisi la borghesia stessa.

Filippo Ceccarelli scrive alla fine del suo bellissimo saggio sulle personalità della prima e seconda repubblica, Invano, che le ideologie novecentesche erano anche una riflessione comune sulla paura della morte. Finite le ideologie, sono rimaste le illusioni di poterla fare franca in un modo o nell’altro.

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