Il caso di Giorgia Meloni che, con grande strepito, recide il legame con Andrea Giambruno – scriveva di recente Federico Zuolo su questo giornale – per paradosso evidenzia il carattere regressivo, anziché progressivo, della destra.

Il rischio reale, argomenta Zuolo, è che il gesto di pubblica depurazione del detrito tossico resti nelle sole disponibilità di chi può permetterselo. Altro che neo-femminismo di marca conservatrice! Le donne che possono, si liberano delle compagnie importune con tanto di osanna pubblico, mentre alle donne prive di strumenti non si offre alcun sostegno istituzionale concreto. Questo perché nell’ideale di famiglia tradizionale tanto amato a destra, il ruolo della donna resta marginale e subalterno: la brava femmina che si emancipa, sì, ma nei limiti di una cornice in cui ella rimane la mamma che accudisce e assiste, mentre il padre comodamente residua quale centro decisionale e amministrativo di tanto nobile cellula della società.

In parte Zuolo ha ragione, ma l’argomentazione non mi persuade del tutto. A me pare che, per come la rottura è stata pubblicamente istoriata, la presidente del Consiglio sia riuscita nel contraddittorio miracolo di incensare la sacralità dei valori della famiglia tradizionale e al contempo marcare il grado di indipendenza della donna. Con dolore e costernazione, Meloni rompe il legame col “padre della figlia”, perché posta dinanzi a una condizione di oggettiva gravità, per cui l’uomo ha infranto il patto di fedeltà e solidarietà che sta alla base della coppia nucleare.

Credo sia questo il genere di femminismo di marca conservatrice che a destra si cerca di sostenere: nutre sé stesso senza sfaldare gli argini della famiglia nucleare. Il gesto di Meloni parlava alle donne di destra. Né, d’altro canto, può davvero dirsi dannoso per coloro cui mancano poteri istituzionali: non ha fatto cacciare l’ex compagno, né lo ha minacciato di pubblica persecuzione.

Il messaggio politico implicato nel plot della rottura è che, posta dinanzi alla scelta tra i valori tradizionali (che indurrebbero a preservare la coppia) e la dignità della donna (entro la coppia), la donna Meloni ha fatto prevalere la seconda. Credo sia questo il tipo di “progresso conservatore” che si cerca a destra – per il quale, l’ammetto, non ho alcuna simpatia. Però su una cosa Zuolo ha ragione: mentre si discetta dei gradi di purezza del femminismo destrorso, la posizione della donna nelle concrete dinamiche di vita rimane di oggettivo svantaggio. E non solo per un difetto nell’armamentario istituzionale. Di recente si è scoperto che, in un locale assai noto, nel centro della capitale, alle impiegate si faceva l’inconcepibile, oltraggiosa richiesta di non avere il ciclo durante il fine settimana, come se fosse a loro disposizione un interruttore che sospende l’inopportuno effluente mestruale.

La pretesa dei gestori del locale è tanto più significativa e grave quanto più impraticabile e bislacca. E ha ragione l’“ostetrica attivista” Leah Hazard nel suo squisito libro sull’utero: che si ami il progresso o la conservazione, troppə di noi nutrono ancora una ridda di ancestrali pregiudizi su quanto proviene dallo sfaldamento dello strato mucoso che tappezza la cavità uterina.

Questo spiega il retrivo disgusto in chi, penedotato, osserva da nauseata distanza, e pudica frustrazione in chi, dotata di utero, non ha pulsanti per interrompere il flusso. Ha ragione Hazard: se ancor oggi ci sono donne costrette a nascondere gli assorbenti nelle maniche quando vanno in bagno oppure provano un senso di afflitta mortificazione per una macchia di sangue, vuol dire che, consapevoli o meno, della donna amiamo una rappresentazione candida ed eterea, che lambisce pericolosamente quella del femminismo conservatore. In tal senso, prima di (doverosamente) smascherare le false ideologie della destra, credo sia consigliabile individuare cosa ci impedisce di comprendere appieno la complessità dell’esser donna, assieme alla sfilza di ostacoli, spesso impercettibili, che precludono una reale parità.

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