Quando, com’era fatale che accadesse a ognuno di noi, i fuorionda di Andrea Giambruno sono piombati fragorosamente in una delle mie chat – un mesto gruppo di cinque uomini dove un buon 90 per cento delle conversazioni riguarda il calcio – la prima reazione è stata quella di tutti: un’inclemente e patetica derisione.

Difficile del resto immaginare qualcosa di diverso: il comportamento del neo-ex-first gentleman è una sorta di paradigma di maschilità ridicola e penosa, la macchietta di un personaggio così caricaturale che, a volerlo scrivere, si verrebbe tacciati di abuso di cliché. La mano che corre a soppesare l’inguine, la sbruffoneria adolescenziale, la buffa arroganza da bauscia, l’ossessione per il sesso, la piacioneria novecentesca e quella paterna, insopportabile mano sul capo di Viviana Guglielmi: la triste performance di Giambruno sembra un implacabile, meticoloso decalogo di ciò che non va fatto – se non per principio morale, per decenza; e se non per decenza, almeno per convenienza.

Giambrunisti

Ho passato ore a chiedermi non tanto come si possa comportarsi così – l’essere talvolta penosi è una maledizione universale e non specificamente giambruniana – ma piuttosto come potesse quell’uomo, compagno della presidente del Consiglio e padre di sua figlia, laureato in Filosofia e giornalista pubblicista, e quindi più di altri mai in grado di sapere che in uno studio Mediaset ci sarebbe stato sempre, ovunque, finanche nel più remoto dei cessi, un microfono puntato su di lui, ecco, come potesse un uomo nella sua situazione non accorgersi dell’oltranza in cui stava precipitando e fermarsi prima, invece di incamminarsi – tutto pimpante e pieno di celeste inconsapevolezza – verso la propria catastrofe.

Come si fa, mi chiedevo, ad inoltrarsi così tanto e così a fondo nello Sbagliato senza avvertire, nell’intimo di sé, un alert, una spia che si accende, l’input censorio di un super io o di una sia pur minima, mondana prudenza?
Alcuni hanno detto: la tracotanza, la hybris, la convinzione di essere intoccabile. Come se, nel momento in cui concioni sulle differenze tra blu Cina e blu Estoril o millanti improbabili orge, la relazione con la presidente del Consiglio non costituisca un’aggravante della tua posizione piuttosto che il contrario (come d’altronde gli eventi dei giorni seguenti avrebbero dimostrato: Giambruno scaricato come un peso eccessivo da una barca in corsa che non può permettersi diminuzioni della velocità di crociera). No, non riuscivo a venirne a capo.

Dopo qualche minuto, i membri della mia chat hanno cominciato ad ammettere – un po’ per scherzo e un po’ no – che in effetti molte delle caratteristiche tipiche di quell’infelice antieroe erano applicabili anche a uno dei presenti in quella stessa chat. Per tutela della privacy, chiameremo questo inconsapevole giambruniano con lo pseudonimo di Lele.
Dopo una rapida ma onesta disamina, è venuto fuori che Lele si comportava con le donne (ma anche con gli uomini, ché il giambrunismo non è una tecnica di corteggiamento ma una postura esistenziale), in modo molto simile a quello sinteticamente dimostrato da Giambruno nella sua breve ma folgorante parabola off the air. Lele, vedendosi chiamato in causa, l’ha presa con ironia, tenendoci però a marcare quello che secondo lui era il discrimine fondamentale tra lui e il capro espiatorio nazionale: «La differenza», ha scritto, «è che invece io alle donne piaccio».

Credere di piacere

A quel punto ho capito. La verità era davanti ai miei occhi, così vicina che non la vedevo. Quello che impediva ad Andrea Giambruno di vedere la rovina su cui si dirigeva con incoscienza suicida non era la convinzione dell’impunità bensì quella, assai più infida, di non essere quello che poi, a tutti, sarebbe sembrato. Lui si comportava così, ma non si sentiva così. Esattamente come Lele, Andrea Giambruno credeva di piacere.

Così come Chiara Ferragni invitava a pensarsi libere, Andrea Giambruno si è pensato affascinante, seducente, carismatico. L’incapacità di vedere la differenza tra sé e il Prototipo, fra l’immagine di sé come di un simpatico Marcello Mastroianni e quella dell’Enzo-Carlo Verdone di Un sacco bello che invece tutti hanno visto, è lo stesso discrimine che Lele mette fra sé e Giambruno, e che invece li assomiglia e li unisce nello stesso tragicomico destino di cecità: «La differenza è che io alle donne piaccio». Servirà una poderosa gogna nazionale per stabilire universalmente che invece no, non piace a nessuno.

È uno tra i più crudeli tranelli del nostro mondo: aprire voragini incolmabili tra l’immagine che un uomo ha di sé e quella che ne ha il mondo esterno. Molti di quelli che a volte, con sbrigativa ansia catalogatoria, definiamo i cattivi, spesso non sono dei cinici bruti che, avendo ben chiara la distinzione tra il Bene e il Male, si schierano col secondo, luciferinamente convinti che le proprie prevaricazioni verranno occultate dalla compagna potente.

È molto più frequente, invece, che quei cattivi non sappiano di esser tali, e che un tragico difetto d’intelligenza o di cultura li porti a pensarsi molto diversi da quelli che in realtà sono, e ad agire secondo schemi mentali completamente deragliati rispetto alla realtà.

Del secondo audio di Giambruno, la parte più illuminante sono forse i secondi finali, quando una voce – forse quella del suo stesso Giuda, ansioso di chiudere quella tagliola mediatica con una clausola di perfetta ironia tragica – dice a Giambruno: «Se ti registra Striscia poi vedi te!».

E Giambruno – non con l’aria di chi viene colto in fallo ma con l’indignazione che si ha verso chi non capisce ciò che per te, invece, è chiarissimo: «Ma che ho detto, si ride, si scherza… veniamo dalla pandemia». E infine la battuta – definitiva e italianissima: «Manco stessimo parlando dell’Agenzia delle Entrate!». Come a dire: non stiamo mica parlando di cose serie. Il sesso è commedia, farsa, scherzo boccaccesco. Mica stiamo parlando del fisco.

Percezioni

Giambruno è un personaggio di commedia dell’arte trovatosi, per caso, sul palcoscenico di un dramma. E l’effetto imbarazzante che genera è esattamente quello da sempre descritto dai teorici della letteratura come il nucleo feroce del comico: il senso di superiorità del pubblico che vede la buccia di banana su cui il malcapitato sta andando a mettere il piede, e gode di non essere lui il coglione del giorno, il tapino caduto nell’abisso che separa ciò che si crede di essere da ciò che si è davvero.

Nessuno può immaginare il momento in cui lui stesso ha visto, pubblicato, quel se stesso: immortalato, estrapolato, oggettivizzato non nel proprio privato specchio mentale ma nella lente inquisitoria del paese intero. Il suo è il destino tragico di chi, a differenza del nostro Lele – che probabilmente continuerà sino alla morte a muoversi nel mondo credendo di essere Ryan Gosling senza mai sapere che gli altri lo vedono come una parodia di Andrea Scanzi – ora sa. Ma avrebbe preferito non sapere.

La vicenda di Andrea Giambruno, che nel mezzo di due guerre ha portato l’Italia intera in una commedia di Carlo Goldoni, dovrebbe essere letta dai posteri come un saggio clinico sulla perversione del Candore: la versione italica, tutta nostrana, del freudiano Uomo dei Lupi.

L’occhio che – come scrive Shakespeare nel Giulio Cesare – «non può vedere sé stesso», stavolta invece ha visto. Nel generale regno della dispercezione, Andrea Giambruno si è scontrato col tragico. Ma essendo appunto il regno della dispercezione, è stato tragico solo per lui. Non la valanga di meme che gli si è riversata addosso meritava, Andrea Giambruno, ma il minuto di raccoglimento che si deve a chi, per sciagura o privilegio di letto, ha incontrato il Reale.

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