«NOI abbiamo le mani pulite», recitava la scritta in rosso. «Chi può dire altrettanto?». «Il voto al Pci è contro la corruzione, il malcostume, il malgoverno. Non è solo una questione di moralità, perché dove c’è corruzione, malcostume, prepotenza, lì c’è anche inefficienza economica e spreco, oltre che instabilità», si leggeva. «Quello che più ha irritato la Dc è stato lo slogan: “Il Pci ha le mani pulite”. Mani pulite significa che i comunisti non si sono fatti corrompere dai petrolieri e dagli enti di Stato, che non hanno scambiato poltrone con cedimenti politici, che hanno affrontato con disinteressato sacrificio le asprezze della lotta politica. Questo costume suscita rispetto negli stessi avversari».

Nelle poche righe di un volantino elettorale c’era già tutto: la questione morale, la rivendicazione orgogliosa della diversità comunista, lo slogan delle mani pulite che vent’anni dopo sarebbe transitato come un brand di successo dai manifesti del Pci alle inchieste della procura di Milano.

Era il 1975, alle elezioni amministrative di quell’anno il Pci guidato da Enrico Berlinguer conseguì la vittoria più grande nelle città, la Dc fu costretta a darsi come segretario il partigiano Benigno Zaccagnini, «l’onesto Zac». Come dire che l’egemonia culturale dell’onestà era arrivata ben prima delle inchieste e del Movimento 5 stelle.

Causa ed effetto

Non siamo come nel 1992, ha scritto Lorenzo Castellani su questo giornale, e neppure come nel 2011, perché oggi nessun partito è in grado di cavalcare la questione morale e perché gli italiani non nutrono più nella magistratura la fiducia che avevano un tempo.

Ma in questo modo si scambia la causa con l’effetto. La questione morale di Berlinguer era una questione politica, un modo per segnare il confine dell’alternativa e una formula intermedia dopo il naufragio del progetto del compromesso storico, il governo dei diversi, il governo degli onesti.

Quando erano arrivati i magistrati la questione morale aveva già cambiato di segno: non più una questione politica, ma anti politica. Nel 1992, mentre cadevano per le bombe della mafia i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e la piccola Giorgia Meloni decideva di iscriversi ai giovani missini, dilagava la Di Pietro-mania per la penisola, direttamente proporzionale al discredito che aveva raggiunto la classe dirigente dell’epoca.

Mesi in cui spuntavano magliette («Milano ladrona Di Pietro non perdona»), manifestazioni (il 12 maggio 1992 a Milano due in contemporanea, il corteo davanti al palazzo di Giustizia di Società civile con Sabina Guzzanti, Paolo Rossi e il settimanale Cuore, il Msi a San Babila con il segretario Gianfranco Fini che raccoglieva firme per presentare le liste Di Pietro alle elezioni. Ma Di Pietro lo sa? «Non ancora, glielo chiederemo», improvvisò Fini).

E poi lettere, raccolte dal giornalista dell’Espresso Antonio Carlucci nel libro Grazie Tonino: «Se i miei figli potranno vivere in un ambiente meno inquinato dalla corruzione, meno frustrante per chi ogni giorno vive onestamente, sarà anche grazie a quello che Lei sta facendo» (Milano, 9 maggio 1992), «Tu non devi mollare: quasi tutti siamo con te, te per noi sei la speranza, ci puoi liberare dal male che ci ossessiona e ci perseguita» (Nuoro, 3 giugno 1992).

Scriveva anche il deputato dc Carlo Giovanardi, con le maiuscole untuose: «Caro Di Pietro, sento il dovere di ringraziarLa per la professionalità ed il senso della misura con il quale conduce la difficile inchiesta a Lei affidata. Sappia che all’interno del cosiddetto Palazzo, ai piani alti come ai piani bassi, c’è chi fa il tifo per Lei» (diventerà ministro di terza fila nei governi Berlusconi).

Sondaggi: nel luglio 1992 Di Pietro era tra i primi dieci italiani più popolari, preceduto da Mike Bongiorno e Corrado, e tra i quattro più simpatici. Pubblicità: due creativi dei centri Apple di Milano firmati Le Balene lo utilizzavano per reclamizzare la loro marca «per non avere le mani legate» (uno dei due, Enzo Baldoni, finirà ucciso in Iraq nel 2004).

Scritte sui muri: «Di Pietro siamo tutti con te» e il categorico «Di Pietro inculateli», all’uscita della A24 a L’Aquila Sud. Copertine: «Di Pietro, facci sognare» del settimanale berlusconiano Tv Sorrisi e canzoni. Il satirico Cuore gli dedicò una ironica rubrica settimanale, in cui il pm era protagonista di imprese sempre più mirabolanti: «Di Pietro salva la Fiorentina dalla serie B». «Di Pietro fa arrivare puntuale il Pendolino». Il magistrato nel vuoto, senza politica. Arrivò invece, puntuale, Silvio Berlusconi.

L’inchiesta ligure

Sono passati più di trent’anni, di Tangentopoli l’inchiesta ligure riecheggia soltanto il rumore di scrocco dei politici coinvolti. Yacht, casinò, alberghi, donne. La privatizzazione della politica: i soldi e altre utilità servono a finanziare sé stessi, laddove il reato principe di Tangentopoli era la violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Appare lontano anche il 2011-2012 di Partitopoli, partiti che rubavano a sé stessi dopo aver dichiarato il falso allo stato. Il vento di delegittimazione popolare non c’è più, il pubblico appare distratto dall’ennesimo scandalo. Nessuna inchiesta giudiziaria somiglia neppure lontanamente alla catastrofe del 1992-1993 che segnò la fine dei partiti della Prima Repubblica. Per la ragione, in fondo semplice, che il sistema è venuto giù da tempo.

Si è spappolato, ha scritto Rino Formica su Domani, o sfarinato, come diceva un tempo. L’impatto politico ed elettorale delle inchieste giudiziarie presuppone un’opinione pubblica reattiva, in grado di distinguere tra buoni e cattivi, non soltanto su un piano etico. Ma è quello che manca: la distinzione, il discernimento.

Negli ultimi dieci anni la maggioranza dell’elettorato, quello che non va più a votare, ha smesso di cercare i buoni politici o politici buoni tra i politici corrotti. Ha condannato, indistintamente, tutti i politici. Non vuole eliminare i politici corrotti dalla sfera pubblica, ma tutti i politici in quanto tali, accomunati nell’immagine dello spreco e della razzia delle risorse pubbliche: tutti privilegiati, tutti a carico del contribuente.

La conseguenza, paradossale, è che si oscurano delicate inchieste giornalistiche e giudiziarie che svelano intrecci perversi tra politici e affaristi, più complesse da seguire. Il velo conformista impedisce l’attribuzione delle responsabilità. E quando le responsabilità individuali e politiche si confondono o spariscono di fronte al vento di discredito che riguarda tutti, le più colpite sono le forze più interessate a costruire un cambiamento.

Il Pd è un partito a lungo al governo nazionale, in regioni e comuni, fatica a rivendicare l’antica estraneità e diversità, la fine del finanziamento pubblico spinge quel poco che resta degli uomini dell’apparato a farsi stipendiare, mantenere dalle istituzioni o dalle società intrecciate dal pubblico, a coincidere (colludere) con chi dovrebbero controllare. La tanto invocata indipendenza della politica, il primato della politica è anche questo.

Ma neppure il Movimento 5 stelle può dirsi al riparo: nel momento in cui prova a diventare un partito come gli altri ricade sotto la tagliola della sfiducia verso tutti i politici che a lungo lo ha favorito.

Se tutti sono uguali nessun cambiamento è possibile. Non c’è più l’attesa salvifica di un’inchiesta giudiziaria, il repulisti scuote pochissimo un’opinione pubblica ormai assuefatta e diventa lo strumento di rese dei conti interne ai partiti o alle coalizioni che con le armi convenzionali della politica faticherebbero a consumarsi. Al contrario di quanto afferma chi è sempre pronto a gridare alla giustizia a orologeria, l’orologio si è bloccato e il pericolo è oggi l’opposto. L’impotenza e l’inefficacia delle denunce, il cinismo di massa. L’astensionismo ci parla anche di questo. Può far contento chi sul cinismo scommette da sempre, ma non c’è da rallegrarsi. Solo riportare le lancette all’origine: la questione morale è una questione politica, che va combattuta con la politica.

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