L’astuzia della ragione ha fatto sì che Liliana Segre, ebrea reduce di Auschwitz, abbia dovuto presiedere, per l’assenza di Giorgio Napolitano, la prima seduta del Senato della repubblica nel mese in cui cade il centenario della marcia su Roma.

La senatrice non ha mancato di ricordarlo. Come non bastasse, ha dovuto cedere il proprio scranno ad Ignazio Benito (!) La Russa, esponente di spicco dell’Msi guidato dal fu caporedattore del Manifesto della razza Giorgio Almirante, acclarato collezionista di cimeli del ventennio, il cui fratello ancora settimana scorsa si prodigava in saluti romani al funerale di un vecchio «camerata» milanese.

A rendere ancor più stonato il quadro, quella inaugurata da Segre sarà la prima legislatura della repubblica ad avere un governo presieduto da un partito che ha «orgogliosamente» mantenuto la fiamma tricolore nel proprio simbolo, a testimonianza di un mai reciso legame con un elettorato «nostalgico», quello, poi, che esprime le classi dirigenti territoriali.  

Richiamo costituzionale

Partendo da qui, il discorso della senatrice non poteva che insistere sui valori fondanti espressi nella prima parte della nostra Carta costituzionale, oltre che ricordare momenti cardine dell’antifascismo italiano, a cominciare dalla figura di Giacomo Matteotti.

Parole, dato non secondario, che assumono nuovo spessore nel nuovo quadro della crisi ucraina, in cui è rinnovato il perenne scontro fra libertà e autoritarismo e a cui è stato fatto esplicito riferimento, dichiarando apertis verbis da quale parte è schierato il nostro paese: «La pace è urgente e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino». Monito, questo lo aggiungo io, a sospette dichiarazioni di equidistanza mal celate da posizioni pacifiste. Il discorso di Segre non ha, però, solo guardato al passato. In più punti è sembrato rivolto al presente, per non dire all’immediato futuro.

Oltre al riferimento a temi cari alla senatrice, come il linguaggio d’odio contro cui ha alacremente lavorato da quando ha assunto la propria carica, la lotta alle disuguaglianze sociali, la necessaria moderazione del dibattito politico, Segre ha indicato nel 25 aprile, nel primo maggio e nel due giugno le date solenni del nostro calendario, in cui tutte le forze parlamentari dovrebbero riconoscersi.

No alle derive

Così come non casuali sono stati i rifermenti al rispetto delle nostre istituzioni, alla centralità del parlamento, al non abusare della posizione di governo. Tradotto: non sono permesse derive orbaniane, né, tantomeno, polacche.

Non è certo solo questione di atlantismo. In aggiunta al tono già solenne di queste parole, non va dimenticato il legame simbolico fra la senatrice e Sergio Mattarella, il presidente che l’ha nominata e che andò a posare una corona di fiori alle Fosse ardeatine come primo atto del suo precedente mandato.

Insomma, il messaggio è chiaro: chi vince le elezioni ha il diritto di governare, ma nel quadro tracciato dalla Costituzione repubblicana. Non una semplice carta, ma «il testamento di 100mila morti caduti nella lunga lotta per la libertà».

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