Quando, nel 2015, sono stati coinvolti nello scandalo del Dieselgate per aver colpevolmente ingannato i consumatori grazie a un software in grado di aggirare i test sulle emissioni dei gas di scarico, i vertici della Volkswagen hanno cercato di addossare tutte le responsabilità a quei pochi ingegneri che avevano materialmente messo a punto lo strumento servito per la truffa.

Se però si osserva con maggiore attenzione la vicenda si può scoprire che gli ingegneri colpevoli di aver inventato quello stratagemma erano messi costantemente sotto violentissima pressione da dirigenti che chiedevano loro l’impossibile: e cioè di progettare un’auto ecologica contenendo costi e tempi di realizzazione.

Hanno avuto delle responsabilità dirette, ma la cultura organizzativa dell’azienda dove lavoravano e un certo stile manageriale hanno contribuito certamente a produrre quel disastro. Quello del Dieselgate è uno dei casi più significativi analizzati nel libro di Maurizio Catino Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni (Il Mulino, 2022).

Effetto di tante forze

L’individuazione di un capro espiatorio nel caso di incidenti, disastri o scandali che coinvolgono grandi o piccole organizzazioni è l’effetto, nelle nostre società, del convergere di tante forze: quella della magistratura che cerca di scovare “il” colpevole di un crimine, quella dei media e dell’opinione pubblica che vogliono a tutti i costi “il mostro”, la “belva” da esecrare e condannare senza appello ben prima che giungano le sentenze dei tribunali, quella dei capi delle organizzazioni, ansiosi di liberarsi dai sospetti che gravano sulle loro teste e disposti a sacrificare un funzionario pur di salvare l’intera baracca (è quello che per Catino è avvenuto nel caso del disastro della Costa Concordia all’isola del Giglio).

Costruendo un capro espiatorio però non solo si compie un’azione ingiusta perché si fa pagare l’intero conto di un disastro a un singolo individuo, ma anche si perde l’opportunità di apprendere la lezione che il disastro (o l’incidente o lo scandalo) avrebbe potuto impartire a chi l’avesse voluta osservare con le lenti dell’analisi organizzativa.

Perché molto spesso le tragedie sono la conseguenza di una somma di fattori tra i quali la volontà umana è il meno rilevante. Il funzionamento concreto delle organizzazioni non è infatti quello che si ricava dalle norme o dai regolamenti, ma è piuttosto l’effetto di un’incessante ricerca di conciliare sul piano pratico obiettivi diversi (e spesso contraddittori): ad esempio quello della sicurezza e quello dell’efficienza.

Secondo il British Railway Rule Book, lo ricorda Catino, si dovrebbe procedere ad agganciare o sganciare i vagoni di un treno solo quando questo è fermo. «Tuttavia, i respingenti, che servono ad assorbire gli impatti e a mantenere la corretta distanza tra i vagoni, sono corti, e quando sono completamente estesi l’operatore non ce la fa ad agganciarli o sganciarli.

L’unica soluzione è che il macchinista, con notevole abilità, faccia arretrare lievemente la motrice. Emerge un paradosso: se l’operatore segue la regola della produzione, viola la regola della sicurezza; se segue la regola della sicurezza, non può effettuare il compito. Il risultato è che l’operatore, in qualunque modo agisca, sbaglia, violando una regola».

L’approccio accusatorio

La vita organizzativa è piena di situazioni come questa, nelle quali un insieme di regole formali è affiancato da un pacchetto di norme implicite e informali che però sono ritenute essenziali per il corretto funzionamento dei processi produttivi e che perciò si rivelano ancora più difficilmente derogabili.

Il fatto che a pagare siano soprattutto i singoli (in genere quadri intermedi) è rassicurante solo per chi, soprattutto al vertice, teme di perdere la propria posizione, la propria reputazione o il proprio denaro (quello che servirebbe per introdurre dei cambiamenti importanti) o semplicemente per coloro che per pigrizia mentale non sono disposti a mutare le proprie consuetudini. Se però le grane strutturali non vengono risolte, non ci sono garanzie che i problemi non si ripresentino, talvolta in forme aggravate.

Catino è molto severo con quella che lui definisce “l’approccio accusatorio”, ovvero quel dispositivo culturale centrale nell’azione penale che va in cerca dei responsabili morali e materiali di un evento negativo per sanzionarli e punirli. In qualche passaggio del libro, il sociologo sembra implicitamente suggerire che la questione della responsabilità individuale nei disastri organizzativi potrebbe essere messa quasi del tutto da parte in cambio dei tanti miglioramenti organizzativi che si otterrebbero concentrandosi principalmente sulle falle sistemiche.

È una prospettiva originale e politicamente non priva di fascino, che però per un verso pecca di utopismo perché va in direzione esattamente contraria alle tendenze sociali oggi più diffuse, per un altro sottovaluta l’enorme importanza, culturale a e simbolica che, nel mondo in cui viviamo, ha l’idea di agency, secondo la quale noi uomini siamo i principali artefici del mondo in cui viviamo.

Io penso che i due approcci di cui parla Catino, quello “alla persona” e quello sistemico, siano più conciliabili di quanto si creda. Cito come esempio virtuoso il caso delle commissioni indipendenti di inchiesta sugli abusi clericali. Volute dalle conferenze episcopali di alcuni paesi occidentali (tra gli altri, la Francia e la Germania) per fare chiarezza su una piaga che affligge la chiesa a ogni latitudine le commissioni hanno scandagliato gli archivi, scoperto nuovi casi (spesso non più punibili penalmente), ma soprattutto hanno cercato di far luce sulle regolarità e sul ruolo che elementi di fondo della cultura del cattolicesimo (ad esempio, il clericalismo, l’assenza di accountability, il celibato o la vita in seminario o ancora il rapporto del clero con la sessualità) giocano nella produzione dei crimini sessuali del clero.

L’intento non è stato certo quello di trovare alibi ai singoli preti colpevoli, ma piuttosto quello di sollecitare l’istituzione nel suo insieme a individuare e rimuovere alcune delle cause indirette di quei reati riformandosi in profondità per limitarne in futuro il numero e la gravità. Aiutando anche nel frattempo (e perché no?) la magistratura a comprendere meglio l’ambiente nel quale i preti che finiscono nei tribunali hanno vissuto e operato. A me sembra un passo nella direzione giusta.

 

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